Editoriale: Referendum e piccola politica

Nel villaggio globale, come è noto, la grande politica oscura la piccola politica. Il precipitare delle vicende internazionali intorno alla crisi economica indebolisce nell’attenzione il ricordo di due avvenimenti, non adeguatamente ricordati in questi mesi e legati da un filo rosso comune: il terrorismo.
Mi riferisco al rapimento ed all’assassinio di Aldo Moro, momento cruciale di tutte le riflessioni sulla democrazia italiana e sull’evoluzione della politica in questi ultimi trentacinque anni. Ed all’uccisione di Marco Biagi, di cui è appena ricorso il decennale nel 2012, mai abbastanza celebrato come discreto ed efficace costruttore di quella democrazia giusta, informata ai principi del socialismo, alla quale guardiamo con incancellabile speranza.
È da vedere se, in realtà, questa è piccola politica; senz’altro è quella più vicina alla sensibilità ed ai sentimenti popolari, e quindi più autentica. Marco Biagi rappresenta sempre più la figura del socialista democratico e riformista moderno: sobrio nell’immagine, quanto concreto e robusto nella sostanza, ancorché spesso travisato da certi esegeti parziali, presenti in special modo nel centro-destra, che trascurano la forte attenzione agli ammortizzatori sociali nel suo sistema di riforma. Attraverso la sua morte è emersa la contrapposizione fra violenza terroristica e positività riformatrice della sinistra, come forse mai era risultata evidente nel passato.
Purtroppo non possiamo escludere che, negli anni a venire, in base a quelli che saranno gli esiti della crisi della finanza e, più in generale, del capitalismo, vi siano ulteriori azioni finalizzate ad una lacerazione del tessuto democratico, anche se non così violente e traumatiche come nel passato. Ma di certo diventerà sempre più centrale di fronte all’opinione del paese il problema del lavoro, della sua riforma, della sua centralità nella cultura e nell’organizzazione di una democrazia moderna.
Lo strumento di questa evidenza della questione-lavoro può essere rappresentato dai referendum per abolire le cosiddette “riforme Fornero”, che hanno investito l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e le pensioni. È verosimile, soprattutto con riferimento al ripristino dei diritti dei lavoratori, che lo Statuto voluto dai socialisti, con cui la Costituzione entrò nelle fabbriche ed in tutti i luoghi di lavoro, possa anche segnare il punto di riferimento per schieramenti in gran parte occasionali e strumentalizzati. Basti notare la presenza di Di Pietro, mai particolarmente sensibile sulle questioni riguardanti il mondo del lavoro, nel relativo comitato promotore, senza contare i tanti esempi di conversione, in questi oltre quarant’anni, degli eredi di quel Pci che non votò in Parlamento la legge 300 del 20 maggio 1970. Ma il sostegno, almeno alla campagna di raccolta firme per i quesiti referendari che si propongono di archiviare l’iniqua – perché poco concertata – politica sociale del governo Monti in tema di pensioni e lavoro, può rappresentare l’occasione per trasformare degli argomenti, affrontati prevalentemente da tecnici e professionisti, in temi di grande portata popolare che dovranno essere spiegati ai cittadini e sui quali si dovrà raccogliere partecipazione e consenso. Per un riformista, considerare l’ipotesi del sostegno alla raccolta delle firme per i due referendum, può comportare una preziosa occasione per aprire una discussione pubblica e spiegare quale riforma del lavoro e delle pensioni si deve realizzare; perché la nostra democrazia riveda, con più scrupolo e con piena partecipazione del sindacato, quello Statuto dei lavoratori che, insieme alla riforma previdenziale di Giacomo Brodolini, è stato per decenni il punto di riferimento della sinistra riformista italiana. Naturalmente, tutto questo vuol dire anche rimettere in discussione modi e presenze del sindacato nella società, per ridefinirne i ruoli, rinnovarne la capacità di rappresentanza, rafforzarne il consenso, facendolo diventare protagonista di quella partecipazione che rappresenta il nuovo modo di far vivere attivamente il mondo del lavoro.
Serve che i socialisti siano ancora una volta portatori di una volontà di riformismo attivo. La violenza del liberismo o il disinteresse dei tecnocrati verso le esigenze di una civile società non possono distogliere la politica da quello che deve essere il suo lavoro quotidiano: lasciare sempre aperto il cantiere della democrazia.

ANTONIO MATASSO

Intervista a Mattia Di Tommaso, candidato a sindaco di Roma

Mattia Di Tommaso, appena 27enne è un giurista esperto di diritti umani. Un sorriso contagioso e occhi scuri profondi che brillano ogni volta che spiega le sue idee. Ci diamo appuntamento in un bar a Capannelle, la zona dove abita da sempre. Giocherà certo in casa, ma sono tantissime le persone che, capendo la situazione, si limitano a brevi saluti e cenni di approvazione.

Compagno Di Tommaso, te lo aspettavi questo entusiasmo?

Sicuramente non di questa portata. Sono giorni che ricevo centinaia di messaggi, chiamate, email. Chi per proporre e suggerire qualcosa, chi per collaborare, chi, semplicemente, per comunicarmi il sostegno. Tutti, però, sono animati dallo stesso sentimento: partecipare a questa sfida, non rassegnarsi allo stato delle cose, provare a migliorare le condizioni di vita e ridare dignità alla politica.

Mattia, perché ti candidi a sindaco?

L’entusiasmo e l’irruenza dei giovani nella storia hanno sempre avuto il compito di rompere l’immobilismo e l’inerzia. Voglio mettere a servizio dei romani la mia passione, le mie idee e tutto il mio impegno. Sento il peso di rappresentare le istanze e i sogni della mia generazione. C’è un paradosso: la generazione dei nostri genitori ha vissuto meglio rispetto a quella dei nostri nonni. Noi non possiamo dire la stessa cosa. La società è regredita. La stragrande maggioranza dei giovani è laureata, specializzata, parla più lingue straniere, viaggia e impara con più facilità, eppure incontra difficoltà enormi a trovare un’occupazione dignitosa e in sintonia con le proprie aspettative e inclinazioni.

Come inizia la tua attività politica?

Premetto che in casa ho sempre respirato aria di politica, ma è a scuola prima e nell’università poi che ho iniziato a muovere i primi passi della rappresentanza. Sono stati anni molto formativi. Poi l’impegno è proseguito nella federazione dei giovani socialisti e nel Forum dei Giovani del Lazio. La militanza è stata una palestra di vita insostituibile.

Sei sempre stato socialista?

Dal 2001 ho fatto la mia prima tessera al partito socialista. L’ho rinnovata per dieci anni, quest’anno compreso. Se ci credi davvero in una idea non è facile cambiarla. Sono socialista non solo perché sono tesserato con il Partito Socialista, ma perché credo in alcuni valori fondamentali come la libertà, la giustizia sociale e l’uguaglianza. Non come slogan ma come stile di vita. Provo, e non sempre ci riesco, ad applicarli nella vita di tutti i giorni e nel rapporto con gli altri. Penso sia insopportabile una vita vuota, priva di valori ed ideali, per cui tutto risulta accessorio.

Con un aggettivo come descriveresti questa politica?

Ipocrita. L’esempio è la riforma elettorale. Dal 2006 parecchi politici, anche chi quella legge l’ha creata, sostenuta e votata si sono affannati ad andare in televisione a dire che era opportuno cambiarla, introducendo le preferenze restituendo, così, il potere di scelta ai cittadini. Sono cambiati 3 governi, tra pochi mesi scade la seconda legislatura e non vi è stata nessuna riforma della legge elettorale. In generale non ricordo una grande riforma strutturale negli ultimi anni.

Quale è un politico italiano che stimi?

L’impossibilità di dare una risposta a questa domanda è una delle ragioni della mia candidatura.

Affrontiamo il programma, iniziando dai giovani.

Sarà, ovviamente una mia priorità. Una delle emergenze dei giovani a Roma è quella abitativa: affittare o acquistare è sempre più difficile senza un intervento diretto delle Istituzioni. Ho in mente un progetto di housing sociale, che si propone di rendere disponibili 1.000 alloggi sul territorio romano. Si potrà partecipare ad un bando pubblico i cui requisiti sono un reddito Isee inferiore a 40.000 euro e un’età complessiva della coppia non superiore a 70 anni. Vi si potrà accedere attraverso la formula del ‘Patto di futura vendita’ o dell’affitto a canone calmierato (400 euro al mese per 70mq). La filosofia che anima questi interventi è quella di recuperare e riqualificare gli alloggi esistenti e la loro messa a disposizione in locazione a costi accessibili e realizzare nuovi alloggi con patto di futura vendita. Il tutto con una progettazione partecipata dei quartieri.

Ci parli della tua idea del reddito minimo?

Vorrei introdurre il reddito minimo di cittadinanza inteso come un reddito di entità tale da consentire alle persone di vivere in una propria abitazione e rendersi comunque autonomi dalla famiglia dopo la maggiore età e aiutando, quindi, ciascuno a soddisfare i propri bisogni di base (quali mangiare, avere una casa, vestirsi e acquisire determinati beni culturali di base) Il reddito minimo garantito è attualmente esistente in tutta l’Unione Europea a eccezione di Italia e Grecia. Lo scopo è quello di contrastare il rischio marginalità, garantire la dignità della persona e favorire la cittadinanza attraverso un sostegno economico. A Roma, per esempio, vi sono oltre 7000 dottori in giurisprudenza che sono obbligati a svolgere la pratica forense. L’80% di essi non viene retribuito pur essendo impegnato tutta la giornata in questa attività e non possono, pur volendo, dedicarsi ad altro. Non tutti si possono permettere di vivere, dormire, mangiare per quasi due anni a Roma senza un reddito. A loro chi ci pensa?

Parliamo di trasporti.

L’idea è quella di prolungare fino alle ore 24 la chiusura della metropolitana durante la settimana e non prevedere, invece, interruzione alcuna durante il week-end. Contestualmente aumentare il numero delle corse dei bus notturni, potenziare le linee ferroviarie regionali e ristrutturare le stazioni. Inoltre ho in mente un progetto in collaborazione con i taxi che consenta alle donne di muoversi liberamente, anche sole, di notte. Un maggior utilizzo dei mezzi di trasporto collettivi, già sperimentato con successo in numerose capitali europee, innescherà un circolo virtuoso del trasporto pubblico che, unitamente agli interventi per rendere più allettanti e sicuri gli spostamenti a piedi o in bicicletta, convincerà i cittadini romani a rinunciare alle proprie auto. Con l’occasione garantisco che continuerò ad utilizzare i mezzi pubblici anche in caso di elezioni. Non è credibile un amministratore che si muove per Roma con l’auto blu, nemmeno un minuto di traffico e arrivando tutto fresco davanti ai giornalisti inizia a parlare del problema-trasporti. Si potrebbe, infine, sperimentare il Velib di Parigi ovvero il programma pubblico di noleggio biciclette e di car sharing.

Qual è la tua idea di città?

Una Smart City, ovvero una città intelligente. E una città lo è se è tecnologica ed interconnessa, pulita, attrattiva, rassicurante, efficiente, aperta, collaborativa, creativa, digitale e green . La mia candidatura ha l’ambizione di introdurre un nuovo metodo di amministrare la città. Siamo pronti a rischiare, innovare, sperimentare, rivoluzionare.

Un pronostico?

Il nostro entusiasmo seppellirà il sistema.

G.F.

Addio ragazzo di campagna?

Se mai fosse possibile riconoscere meriti alla crisi economica che da cinque anni affligge il mondo occidentale, uno di questi sarebbe quello di aver indotto gli italiani a guardare in faccia la cruda realtà. Dopo un ventennio di millanterie su rivoluzioni liberali, tanto decantate quanto non realizzate, il nostro Paese scopre infatti d’esser stato defraudato della principale speranza che aveva accompagnato le sue famiglie nell’ultimo mezzo secolo, quella della progressione sociale. Sotto quest’aspetto tutti gli studi sinora condotti sono pervenuti alla stessa, impietosa conclusione: nella Repubblica Italiana l’estrazione sociale è orami divenuto il principale fattore discriminante nella determinazione del futuro di un giovane tra i venti ed i trent’anni. Se gli Anni Cinquanta avevano concretizzato il mito del ragazzo di campagna destinato a pervenire ai vertici della prosperità economica e della scala sociale, purché dimostrasse di possedere la perseveranza e le attitudini necessarie a sfondare, l’inizio del nuovo millennio sembra aver riproposto l’ennesima versione del gioco della sorte, per cui nascere in una famiglia impiegatizia od operaia sbarrerà nel novanta per cento dei casi le possibilità di migliorare la propria posizione, mentre l’estrazione medio- alta borghese garantirà all’opposto un generale mantenimento dello status quo ante. Quella dell’immobilismo sociale è una piaga che sta abbattendosi su milioni di giovani italiani, rischiando di comprometterne decisamente il futuro, e con esso, le concrete prospettive di ripresa economica e di rigenerazione sociale. Eppure, per un paradosso tipicamente nostrano, questo fenomeno continua a non essere affatto preso in considerazione, se non per esser oggetto di facili sarcasmi o d’inutili scene di vittimismo. Dai bamboccioni di Padoa Schioppa e di Brunetta, per finire con i choosy di Fornero, sembra quasi che ai giovani debba esser attribuita per intero la responsabilità del tracollo generazionale in cui l’Italia sta lentamente strangolandosi. Trattasi di una facile generalizzazione, strumentale all’esigenza, molto avvertita dal ceto politico italiano, di lavare i propri rimorsi di coscienza, che rischia oltre tutto di prestarsi a semplicistiche operazioni di deresponsabilizzazione delle stesse vittime, storicamente quanto mai inopportune in qualsivoglia contesto sociale. Si finisce in tal modo per occultare il reale quadro della situazione in cui, lungi dal poter scaricare il peso delle responsabilità sulle spalle dell’uno o dell’altro, sembra invece possibile poterlo distribuire equamente tra tutti i protagonisti di quest’impietosa vicenda. Un’analisi di questo fenomeno non può che prendere l’avvio dalle linee ideologiche adottate dalle forze politiche che si sono susseguite al potere negli ultimi vent’anni. E discutere d’ideologie è in questo caso quanto mai opportuno, dato che sul fronte della scala sociale e del mondo giovanile, ambedue gli schieramenti hanno dimostrato una totale assenza di concrete politiche, preferendo viceversa abbandonarsi ad obsoleti slogan, dietro cui celare una volontà di non cedere di un solo pollice davanti ad imprescindibili necessità di cambiamento, qualora si trattasse di rimettere in discussione status ritenuti immodificabili. Sotto questo profilo, il primato dev’essere indubbiamente riconosciuto al centrodestra. Nonostante le panzane narrate nel corso del ventennio berlusconiano, tutte prodighe di promesse per la prossima rivoluzione liberale, i partiti della destra italiana hanno confermato di caratterizzarsi per una netta propensione al conservatorismo economico e sociale, declinando una versione del liberismo di reaganiana memoria, inteso quale semplicistica demolizione dello Stato sociale, considerato un dannoso centro d’inutili sperperi, specie con riferimento al sistema di politiche di supporto ai ceti più disagiati. Peccato che nemmeno Reagan avesse mai sognato di appoggiare un meccanismo di corporazioni economico-sociali quale quello italiano, unico al mondo per il livello di autoregolamentazione e privilegio, e rivelatosi il principale elemento di mortificazione al merito ed alla competenza. Ne è derivato il paradosso di una destra italiana che, pur affermando d’esser liberale, è stata disposta, come la querelle della recente keggi sulle liberalizzazioni ha clamorosamente attestato, a sacrificare i più elementari principi di concorrenza e meritocrazia sull’altare del privilegio di casta. D’altronde, se il centrodestra ha dimostrato di ritenere superfluo lottare per un cambiamento realmente liberale, sinora i movimenti di centro-sinistra non hanno esitato anch’essi a mettere da parte la questione giovanile. Se è innegabile che tale area abbia supportato il mantenimento delle strutture a sostegno del diritto allo studio giovanile, ed abbia emanato, con il Decreto Bersani del 2007, il primo testo di legge teso ad aprire un mercato professionale quanto mai asfittico, è altrettanto evidente che esso non è stato capace di superare il morbo del “qualunquismo”, da cui è stato affetto negli ultimi decenni. L’ossessione per una presunta intangibilità di normative, quali quella dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, necessitanti invece di un adeguamento al mutato contesto storico e sociale, così come il compiacimento, troppo spesso dimostrato, per un egalitarismo ad ogni costo sfociato in una negazione del merito, hanno prodotto nella gioventù italiana guasti altrettanto profondi di quelli ingenerati dal conservatorismo del centro destra. È in un simile contesto, privo di qualsivoglia azione concreta tesa a supportare le giovani generazioni ed a permettere il loro ingresso nella società adulta, che si collocano gli infraquarantenni dell’Italia di oggi. Giovani uomini e donne che faticano a diventare grandi, finendo spesso per dover indossare i panni degli eterni Peter Pan, membri di una generazione chiamata a dover subire gli oneri di un benessere di cui ha visto ben poco. Eppure nemmeno loro sono esenti da colpe. Se confrontate con i coetanei del resto del mondo, le nostre nuove leve scontano gravi carenze di preparazione e di resilienza. Poco disposti ad impegnarsi nello studio, i giovani italiani sono tuttavia spesso convinti che un posto sia loro dovuto, in primis dallo Stato, dimenticando che proprio l’idea del pubblico impiego come agenzia di sistemazione ha condotto il nostro debito a vertici che saranno loro stessi chiamati a sopportare. Scarsamente disposti a far sacrifici e ad allontanarsi dalla propria città d’origine, essi dimenticano che è proprio sul sacrificio e la determinazione che si sono edificate le fortune dell’Italia del Boom. Sempre pronti ad indicare nel prossimo il capro espiatorio, sono quasi mai propensi a fare autocritica, o ad impegnarsi a lottare per il mutamento. Ciò premesso, è assurdo imputare loro la completa responsabilità del disastro degli ultimi anni. La scarsa competitività dei nostri giovani sul mercato internazionale è frutto di una scuola e di un’Università incapaci di rispondere alle esigenze dell’odierna realtà globale, dove un ruolo primario viene assegnato alla conoscenza delle lingue ed all’uso degli strumenti informatici e matematici, oltre che poco attente alla promozione del merito. Il prodotto è una società soffocata da lacci corporativi, che ritardano per anni l’ingresso nel mondo del lavoro. Si tratta del frutto di una classe politica che ha sprecato vent’anni di crescita economica sull’altare di pretestuosi conflitti ideologici, lasciando andare in malora una delle economie più ricche al mondo. Di fronte all’inevitabile impoverimento cui i giovani sembrano esser predestinati, s’impone allora la necessità di un’involuzione di rotta, sinora trascurata, ma ormai indefettibile se si voglia evitare la catastrofe greca. La questione giovanile deve cessare d’essere un facile strumento di campagna elettorale, pronto ad accantonarsi una volta vinte le elezioni di turno, per entrare invece a pieno titolo nell’agenda di governo. Senza scadere in un intervento straordinario, una risposta dovrebbe invece essere articolata in maniera organica, andando a fondo nelle questioni sopra esposte. Si deve promuovere una concreta attuazione delle riforme nel mercato del lavoro, eliminando realmente la piaga delle corporazioni e del precariato strutturale che sta lasciando senza futuro un’intera generazione, non senza abbandonare nel contempo l’idea di un posto fisso garantito per l’eternità, anomalia italiana che ci ha resi non competitivi agli occhi del mondo. Si deve dar corso ad una reale riforma dell’istruzione scolastica ed universitaria, capace non soltanto d’adeguare l’offerta formativa alle richieste del mercato globale, ma anche di abbattere le resistenze ad un controllo effettivo sull’efficienza del lavoro del corpo docente, anche a costo di spezzare gli inevitabili ostruzionismi dei sindacati. Sono riforme ormai ineludibili, pena l’implosione di un’intera generazione. E con questa sfida dovrà confrontarsi il socialismo italiano nel prossimo decennio. Il movimento è chiamato ad un compito delicatissimo, forse il più ingrato nella scena politica italiana, ma in cui potrà offrire una prospettiva socialdemocratica a generazioni cresciute nell’ignoranza di un’alternativa al binomio berluscononismo-comunismo. Un’offerta di tal tipo, che sappia coniugare la lotta contro le discriminazioni socio-economiche con la promozione della meritocrazia, è destinata a trovare grande accoglienza presso le nuove generazioni, purché venga tempestivamente tradotta in un concreto pacchetto politico. L’alternativa è inquietante, e già allunga i propri raggi inceneritori, presagi di una possibile nuova alba fascista. E costituirebbe un amaro epilogo per la storia repubblicana italiana, se il buon ragazzo di campagna, desideroso di conquistare il mondo, tornasse ad esser confinato tra le nebbie del mito.

GIUSEPPE GIGLIOTTI

Donne: troppe violenze, pochi diritti

Ogni anno in Italia centinaia di donne subiscono violenze e maltrattamenti. Precisamente sono novantotto le donne uccise dall’inizio del 2012. Cifre che dovrebbero spaventare, che dovrebbero far riflettere sul significato che ha assunto nel nostro Paese il binomio violenza-donna. Numeri che raccontano, con estremo rigore logico-matematico, una realtà aumentata drammaticamente nel nostro contesto sociale. Come si spiegano questi dati? Come è possibile che nonostante la diminuzione progressiva di molti reati, quasi una donna ogni due giorni sia vittima di violenza? Quali sono le cause di queste violenze che sono veri e propri crimini, omicidi, anzi “femminicidi”?
Traguardi importanti per le libertà femminili sono stati raggiunti nel corso degli anni, fortunatamente: il referendum sul divorzio del 1974, la riforma del diritto di famiglia del 1975, la legge sulla tutela sociale della maternità e sull’interruzione di gravidanza del 1978, la cancellazione dell’attenuante per “delitto d’onore” nel 1981, la legge contro la violenza sessuale nel 1996, la legge contro la violenza nelle relazioni familiari nel 2001, la legge sullo “stalking”nel 2009, per citarne alcune. Ma le leggi da sole non bastano perché forse la violenza di genere trascende l’emancipazione femminile. Non è un caso infatti se una violenza su due avviene nelle tre regioni del Nord, Piemonte, Lombardia e Veneto, dove l’occupazione femminile è più diffusa e maggiori sono le opportunità per le donne di una autonomia economica e sociale. Non che le donne del Mezzogiorno vivano una realtà migliore. Per loro lavorare è addirittura un’eccezione: secondo i dati dell’Istat nel secondo trimestre del 2012 il tasso d’occupazione tra le under 30 è appena al 16,9% ed il divario tra la retribuzione e la parità di ruolo è stridente.
Una cosa però è certa: la violenza sulle donne è una violazione dei diritti umani ed è in primo luogo un problema degli uomini. Può sembrare paradossale o assurdo, ma purtroppo non lo è. Quando le donne sono vittime di violenza, il problema non è loro. Sfortunatamente, lo diventa. Ma il vero problema della violenza di genere è di chi la crea : vicini di casa, conoscenti stretti, colleghi di lavoro o di studio, familiari. Uomini per l’appunto.
Pochi giorni fa , dopo 18 lunghi mesi e la mobilitazione di molte donne, l’Italia ha firmato a Strasburgo, la Convenzione del Consiglio d’Europa contro la violenza di genere. Trattandosi però di una norma di diritto internazionale per poter entrare in vigore e dunque essere vincolante, è necessaria una legge di autorizzazione alla ratifica. Un traguardo importante ma al momento non pienamente raggiunto.
Che cosa si può fare allora nel frattempo ? Intanto è importante agire su più piani: informare e sensibilizzare, promuovere attività di prevenzione e di educazione ai sentimenti, rafforzare la collaborazione tra gli enti e le strutture territoriali, moltiplicare e sostenere i centri antiviolenza, immaginare, perché no, spazi urbani a misura di donna, come sostenuto recentemente da molte professioniste nel corso dello scorso World Urban Forum 6.
Ma questo non è sufficiente. Perché oltre ad essere spesso oggetto di violenza, noi giovani donne siamo quasi sempre escluse da qualsiasi opportunità economica, sociale e soprattutto politica. “Non mi piacciono le quote rosa, ma quello che le quote rosa fanno” ha affermato recentemente Viviane Reding, vice presidente della Commissione Europea, che proprio in queste ore ha proposto di introdurre regole comuni per imporre la presenza di un numero maggiore di donne nei consigli di amministrazione delle grandi società europee. Il mancato riconoscimento dell’importanza e del contributo femminile riguarda infatti troppi luoghi dell’esperienza moderna: lavoro, istruzione, salute e soprattutto rappresentanza politica. E si, perché nel Parlamento italiano, nelle istituzioni locali e nei luoghi della decisione le donne sono ancora una presenza minoritaria.
La parità di genere non è dunque un obiettivo tecnocratico ma politico e sociale, che richiede non soltanto l’elaborazione di nuovi diritti o la garanzia di nuove opportunità, ma soprattutto la diffusione di una nuova cultura del rispetto delle soggettività femminili e della parità di genere, che non releghi la donna ad uno stereotipo ormai passato, ma la renda protagonista dei cambiamenti e delle sfide che il nuovo millennio ci ha posto: in primo luogo quella di una democrazia paritaria. Il mio augurio è che il prossimo 25 Novembre ci sia davvero qualcosa da festeggiare.

MARIA CRISTINA PISANI

Palermo, i socialisti si raccontano per i centoventi anni del Psi

I socialisti si raccontano. E si contano. A Palermo, alla Sala Rossa di Palazzo dei Normanni, in occasione del Convegno sui 120 anni del PSI, il 6 ottobre scorso. Alcuni parlano di solitudine (di oggi) dei numeri primi (di ieri); per altri non è invece una questione matematica, ma di un partito decapitato con una storia unica alle spalle. Da raccontare, appunto. E replicare, al di là dei numeri. Dopo il supposto rampantismo è ora il tempo maturo della riflessione – così sembra – e di ritornare. Alla spicciolata fino a ieri; con maggiore consapevolezza da oggi.
La Sala è quella Rossa, colore dalle monocromie di sostanza: arterie e vene, intelligenze e coraggio dei tanti uomini e delle tante donne che c’hanno creduto. E che lì sotto, sotto quelle bandiere, ci sono pure morti. Centoventi anni di storia, di partito e d’Italia, di battaglie sociali e civili che hanno segnato epoche e trapassi. E lì in mezzo sempre nomi e memorie.
Il convegno è stato organizzato dalla segreteria regionale del partito e a fare gli onori di casa è stato il coordinatore regionale Antonio Matasso, che nel suo intervento ha tracciato una linea netta scegliendo come criterio guida i sindacalisti d’area uccisi dalla mafia e i socialisti siciliani dirigenti che hanno dato prova di buon governo alla Regione e scomparsi di recente.
«Il racconto di questi centoventi anni – esordisce Matasso – non è esaustivo, ma i nomi, alcuni, ne sono tasselli irrinunciabili». E il ricordo va a Placido Rizzotto, di Corleone, ucciso dalla mafia nel 1948 (presente il nipote che ne porta il nome); a Epifanio Li Puma, di Raffo, ucciso nel ‘48; a Salvatore (Turiddu) Carnevale di Sciara, ucciso nel ‘55; a Carmelo Battaglia di Tusa, ultimo sindacalista ad essere ucciso dalla mafia (è il 1966), per poi passare dai Fasci Siciliani, al Cln, alla Costituente, a Palazzo Barberini, tra scissioni e vocazioni autonomiste dal Pci.
E poi loro, i politici regionali. Luigi Granata, assessore regionale all’industria (‘88-‘91), segretario regionale del Psi (’76-’78) e capogruppo all’Ars, scomparso nell’inverno del 2011; Aldino Sardo Infirri (presente il figlio Franco) di Castell’Umberto, nel messinese, scomparso la scorsa estate, assessore regionale alla sanità (‘83-’87) e vicepresidente della regione nell’‘86-’87. E poi, ancora, Filippo Lentini (presente la figlia), assessore regionale dal ’61 al ’66, vicepresidente dell’Ars e capogruppo del Psi, morto nel 2009.
Il 6 ottobre attorno al tavolo delle ricorrenze i nomi dei socialisti di sempre. Giovanni Barillà, componente della segreteria regionale negli anni Ottanta; la moglie Enza Catalano, assessore a Palermo negli stessi anni; Roberto Sajeva, segretario regionale della Federazione dei Giovani Socialisti; Alessio Campione, dirigente della federazione di Palermo in quel periodo; Manlio Orobello, sindaco del capoluogo (unico socialista nella sua storia) nel ’92-‘93; Turi Lombardo, già assessore regionale alla cooperazione e ai beni culturali dall’‘88 al ’91, che, tra ricordi e rimpianti, apre la porta della prospettiva: «Immaginate cosa era il partito prima… Ma siamo fra quelli che pensano che andrà meglio». E già, cos’era il partito prima? Parlare di questi centoventi anni reca con sé il retrogusto di quale (apparente) sentimento? Nostalgia? Riscatto? Matasso ci tiene a precisare che il socialismo in Europa oggi non è un fatto nostalgico perché o è partito di maggioranza o guida l’opposizione. E in Italia? «La presenza del Psi è marginale – afferma il coordinatore regionale – ma il tentativo è proprio quello di ristrutturarlo per renderlo simile a come già è nel resto d’Europa». I centoventi anni come un trampolino: i socialisti massa critica in passato per esserla, ancora, nel futuro.
Non si è parlato di Tangentopoli, ma solo dei grandi sindacalisti e dirigenti socialisti. Un modo per prenderne le distanze? Matasso è categorico: «In centoventi anni di una vicenda storica, Tangentopoli, pur col suo baccano, è stata una fase che non ha aggiunto nulla all’identità e ai valori del socialismo. È una pagina relativamente recente, ma i rilievi fatti a quella classe dirigente non reggono il confronto con quel che avviene oggi. E poi Fiorito era tra coloro che gettavano le monetine contro Craxi al Raphael… Allora si finanziava il sistema dei partiti, oggi i conti personali».
E su partiti e storia è pure intervenuto Antonino Blando, ricercatore presso l’Università di Palermo: «I partiti non hanno più storia e allora di cosa parli? Solo di diatribe personali. Con il distacco dal demos la politica non esiste più. I dirigenti, segretari, sindaci, assessori, militanti, gente che credeva nella funzione pedagogica della politica e nel ruolo del partito sono stati tanti. Ricordarli tutti servirebbe non a tuffarsi nella nostalgia ma a dimostrare come la politica si fa a tanti livelli e come i partiti siano stati una grande agenzia di selezione della classe dirigente e di semplificazione delle domande politiche». Ed aggiunge: «Occorre chiedersi che spazio c’è per una politica socialdemocratica…». E la domanda finale, che è un punto di partenza, rimane, forse scontata ma complessa, l’unica possibile: cosa vuol dire essere socialisti oggi? «Siamo una forza politica – cònclude Matasso – che deve e può rappresentare le istanze di giustizia sociale». Da qui si è partiti e da qui si vorrebbe ripartire.
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ANTONINO CICERO

Editoriale: Flaiano aveva ragione?

Il rituale della lotta politica è stato per decenni, ma forse anche per secoli, dominato dal messaggio: «grandi difficoltà ci attendono, ma con l’aiuto di tutti ce la faremo». Che si trattasse di promettere lagrime, sudore e sangue o di domandare se si preferissero i cannoni al burro, dai leader ci si aspettava un rituale capace di scaldare i cuori e spingerli oltre qualunque ostacolo (o barricata, che dir si voglia). La forza di questo paradigma retorico, negli anni, lo ha fatto vivere ben oltre le guerre direttamente guerreggiate e i momenti gloriosi e coinvolgenti. Chiunque abbia frequentato congressi e manifestazioni politiche conserva nel petto il ricordo degli scenari tratteggiati nelle relazioni introduttive. I grandi e foschi avversari, la necessità che ognuno portasse il suo apporto e così via. Un corollario essenziale di questi ragionamenti era che la vittoria stava forse a portata di mano, ma certamente era tutt’altro che sicura. Nessun politico avrebbe mai commesso l’errore di dirsi certo della sconfitta degli avversari.
Si riteneva, non a torto, che la convinzione del risultato già acquisito avrebbe sottratto energie al proprio schieramento. Si pensava che i dubbiosi e i pigri si sarebbero sottratti al voto senza una motivazione ultimativa e fortissima. I partiti non si potevano presentare come troppo sicuri; essi dovevano sembrare bisognosi dell’aiuto di ognuno e insicuri del loro destino. Del resto, quando un intraprendente uomo di comunicazione scrisse negli anni ‘60 sui manifesti “La Dc ha venti anni”, gli italiani (e tra loro, i socialisti) glossarono che fosse ora di deflorarla, aggiornando rapidamente i termini della politica di scambio. Oggi assistiamo al rovesciamento totale di questa logica consolidata. Che Berlusconi abbia iniziato la sua carica contro gli avversari dichiarando e ripetendo ogni giorno che un fronte di “moderati” non più guidato da lui, con il recupero di Fini e Casini, è certamente prossimo alla vittoria, appare abbastanza scontato. Il Cavaliere deve rimettere in carreggiata un esercito in fuga, mostrando la possibilità della vittoria, anche al prezzo di cedere lo scettro ad altri (ed il nome di Monti non sembra quello più probabile). Meno si capisce l’ansia con cui Alfano si affanna a delegittimare i sondaggi che danno il Pdl in caduta libera ed a dichiarare, insieme al suo poco affidabile stato maggiore, la certezza che il suo partito tornerà ad essere il primo, nonostante le sempre più forti minacce di scissione dagli ex An.
L’unica spiegazione che rimane per questi insani rituali di vittoria è che, in assenza di altri contenuti, ci si affida a uno dei tanti geniali pensieri di Ennio Flaiano. Se è vero che gli italiani sono pronti ad accorrere in soccorso del vincitore, come è avvenuto al tempo in cui il centro-destra era ancora compatto, cosa di più efficace del seguitare a proclamarsi tale? Tuttavia, Flaiano ha anche scritto: «datemi l’abbraccio del lebbroso, ma risparmiatemi la stretta di mano del cretino».

ANTONIO MATASSO

Regione Lazio: perché votare subito

Come ormai noto a tutti, la Regione Lazio è priva, dallo scorso 28 settembre, di organi politici legittimati a governare. Essi operano in quell’interregno che gli studiosi del diritto costituzionale chiamano “prorogatio”, per significare l’intervallo di tempo tra la scadenza di un organo ed il suo rinnovo, in cui è necessario assicurare continuità istituzionale e quindi vengono riconosciuti agli organi scaduti alcuni limitati poteri, soprattutto di ordinaria amministrazione, sino all’insediamento dei nuovi a seguito della consultazione popolare.
Tradotto in termini più immediati, Giunta (dimissionata dal Presidente Polverini) e Consiglio regionale (“polverizzato” dallo squallido scandalo dei fondi PDL) restano in carica sino alle prossime elezioni per gli atti urgenti e indifferibili.
Ma quanto può durare questa prorogatio?
Per rispondere è necessario, anzitutto, considerare le norme.
La legge elettorale regionale del Lazio (n. 2 del 2005) prevede che, in caso di interruzione anticipata della legislatura, i comizi elettorali vengano convocati dal Presidente uscente entro 3 mesi, senza specificare se si debba trattare di mera individuazione della data oppure di vero e proprio svolgimento delle elezioni. Sul punto si è aperto in questi giorni uno stucchevole dibattito tra l’ex vertice della Regione Lazio – sprofondata sullo scandalo della sua maggioranza – e il Ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri, che si è espressa sin da subito per una interpretazione della legge in termini di buon senso, suggerendo, cioè, di andare al voto prima possibile per restituire ai cittadini del Lazio istituzioni pienamente legittimate e in grado di far ripartire l’azione amministrativa. A questa impostazione si è contrapposta quella dell’establishment vicino all’ex Presidente Polverini che, forse per ragioni insite nella volontà di tergiversare in attesa di uno scenario più favorevole al centrodestra, pare intenzionata a leggere la norma “alla lettera”, avvalendosi, così, di tutti i 90 giorni a disposizione per fissare la data delle elezioni.
La principale giustificazione addotta fa riferimento al contenimento della spesa pubblica e quindi all’opportunità di abbinare tutte le elezioni in un’unica data, il c.d. election day, probabilmente nel mese di aprile 2013.
Se così fosse, i cittadini del Lazio potrebbero trovarsi dinanzi ad una situazione davvero singolare: votare, insieme alle elezioni parlamentari, anche per il rinnovo delle istituzioni regionali, con tutte le conseguenze sul piano della procedura elettorale facilmente intuibili. Votare nello stesso giorno per il Consiglio regionale, potendo esprimere una preferenza, e per eleggere deputati e senatori rischierebbe di ingenerare confusione nell’elettorato, con il risultato di diluire il significato cruciale delle elezioni nazionali in una disputa locale, anche se di rilevanti dimensioni. In più se, come appare probabile, la riforma del porcellum dovesse reintrodurre il voto di preferenza anche a livello parlamentare, l’elettore riceverebbe due schede, con possibilità di esprimere preferenze, nell’ambito di due sistemi elettorali profondamente diversi. E la campagna elettorale sarebbe contestualmente condotta sul doppio livello, regionale e nazionale. Inoltre, nei Comuni in cui è previsto il rinnovo delle amministrazioni (su tutti, Roma Capitale), le schede potrebbero diventare 3, o addirittura 4 (a Roma infatti si voterà anche per i municipi di decentramento).
Siamo sicuri che tutto ciò favorisca una chiara, libera ed efficace articolazione del processo democratico? Si possono avanzare molti dubbi, perché l’obiettivo principale di ogni elezione dovrebbe consistere nella scelta di una rappresentanza e, nel caso di formule maggioritarie, anche di un governo. Ma gli elettori devono essere messi in condizione di operare scelte consapevoli, soprattutto in un momento di forte centrifugazione in favore di soggetti populistici e dalla carica antisistemica, ed in presenza di un contesto di multipartitismo estremo polarizzato, per utilizzare definizioni care al politologo francese Maurice Duverger e all’italiano Giovanni Sartori.
Inoltre, il 10 ottobre è stato emanato il decreto legge (n. 174) sui c.d.“costi della politica regionale”, che impone alle Regioni la riduzione della spesa degli organi di governo entro sei mesi dall’entrata in vigore del decreto, salvo il caso di Regioni soggette a imminenti consultazioni elettorali (rectius, il Lazio, e forse la Lombardia), per le quali i 6 mesi decorreranno dalla prima riunione del nuovo Consiglio regionale, salvo che per la diminuzione di consiglieri e assessori, che troverà automatica applicazione anche in assenza di un intervento regionale di adeguamento dello Statuto. Alla luce di tale impianto normativo, il prossimo Consiglio regionale del Lazio sarà composto da 50 membri più il Presidente, e gli assessori non potranno essere più di 10.
Tale ragione induce a ritenere ragionevole un’individuazione tempestiva della data per lo svolgimento delle elezioni, così da consentire ai nuovi organi, legittimati, l’introduzione delle misure di risparmio della spesa richieste dal Governo, che implicheranno profonde revisioni all’assetto istituzionale e normativo dell’ente.
A queste argomentazioni di carattere tecnico se ne possono aggiungere altre dalla valenza più politica. Tenere in vita istituzioni regionali, vulnerate da beceri e grossolani scandali nella loro immagine ed operatività dinanzi all’opinione pubblica, non contribuisce a restituire ai cittadini quella fiducia verso i soggetti politici necessaria per una virtuosa articolazione delle procedure democratiche.
L’impressione, purtroppo, è che, invece, si vogliano utilizzare cavilli normativi per ritardare un voto indifferibile, soltanto per ragioni di mero calcolo particolaristico che speravamo di aver debellato, ma che, evidentemente, costituiscono ancora l’asse portante di questa nostra infausta seconda Repubblica, e non solo a livello locale.

VINCENZO IACOVISSI

Catalogna, Quebec, Scozia, Belgio: possibili secessioni

Quello che anni fa era chiamato il “Primo Mondo”, insomma l’Occidente, è scosso dalla crisi economica e sociale che è diventata ora politica e culturale. Tra le sue conseguenze vi sono anche quelle aspirazioni nazionaliste fin’ora sopite dal benessere e dalla sazietà di risposte sull’identità. Si sono risvegliati numerosi secessionisti tra le due sponde dell’Atlantico, tenterò di farne il punto caso per caso.
Questo 11 settembre per la Diada, festa nazionale catalana, sono scesi in piazza un milione e mezzo di persone, tra cui Pep Guardiola, ex allenatore del Barcellona. Tutti con Estelada blava o Estelada roja, le versioni indipendentiste della Senyera, bandiera catalana. Carme Forcadell, attivista per l’indipendenza, ha detto: “Abbiamo capito che quest’anno sarebbe stato eccezionale per la festa della Diada: i pullman non bastavano e non c’erano più bandiere catalane nei negozi. Persino i cinesi non le avevano”. Secondo un sondaggio de La Vanguardia circa il 55% della popolazione della Catalogna è a favore dell’indipendenza (solo il 33 contrario) rispetto al 51% dello scorso maggio. Con il patto fiscale Madrid trattiene oltre 16 miliardi di euro di Pil, insomma la Catalogna riceve meno di quanto versa. Da poco, oltre alla Sinistra Repubblicana, anche Convergencia i Union, partito conservatore, è a favore dell’indipendenza. Il presidente del Barcellona club Sandro Rosell ha dichiarato: “Il giorno che la Catalogna deciderà per l’indipendenza, il Barça sarà al suo fianco”. Sospinto da quest’onda irripetibile, il presidente conservatore Artur Mas ha convocato il 25 novembre elezioni anticipate, sperando in caso di vittoria dei due partiti indipendentisti (il Partito Socialista Catalano è contrario) di indire un referendum, che Madrid considera anticostituzionale. È vero, un referendum per l’indipendenza catalana sarebbe illegittimo per la Costituzione spagnola, ma ci si potrebbe rivolgere a organismi internazionali appellandosi all’autodeterminazione dei popoli, sancita dalla Carta delle Nazioni Unite. Rajoy ha dichiarato che non farà alcuna concessione alla Catalogna sull’indipendenza, non solo per il rischio di caduta del governo, ma anche per paura di essere ricordato come colui che ha permesso la secessione della regione autonoma. Ad aumentare ulteriormente l’orgoglio della Comunità Autonoma ci ha pensato il ministro dell’istruzione di Madrid, Jose’ Ignacio Wert, dichiarando “intenzione del governo spagnolizzare i bambini catalani”. Ma gli indipendentisti non vedono contraddizione tra la frammentazione della Spagna e la costruzione degli Stati Uniti d’Europa. La prima effettiva apertura al principio di autonomia ebbe luogo durante la Seconda Repubblica spagnola, che favorì l’istituzione delle prime autonomie regionali in Catalogna, Paesi baschi e Galizia. La Costituzione post franchista ha lasciato ampio margine di discrezionalità sulle attribuzioni dell’autonomia e della stesura degli Statuti. Carme Forcadell conclude: “Non volevo che il catalano finisse come il gaelico e ho capito che affinché non accadesse bisognava costruirgli attorno una nazione”.
In Quebec, Provincia del Canada, tutto è (ri)cominciato con le proteste studentesche, ribattezzate Primavera degli aceri, contro l’aumento del 75% delle rette universitarie, circa 4mila euro, che hanno portato alle dimissioni il ministro dell’istruzione del governo conservatore della Provincia, Lina Beauchamp. Alle successive elezioni del 4 settembre il Parti Quebecois – indipendentista – nonostante non abbia ottenuto la maggioranza assoluta ha vinto come non succedeva da anni e formerà un governo di minoranza. Proprio mentre la neo prima ministra indipendentista Pauline Marois festeggiava la vittoria in una sala concerti di Montreal, un uomo di mezz’età armato di carabina si è avvicinato e ha fatto fuoco uccidendo una persona e ferendone un’altra. Mentre veniva arrestato ha gridato “gli inglesi si stanno risvegliando”. Il Canada nacque sulla base di un patto tra ‘due popoli fondatori’ e un dualismo: linguistico inglese/francese, religioso cattolico/protestante, giuridico civil law/common law. Il francese è parlato dall’80% dei 7,8 milioni di abitanti della Provincia, che festeggia di più il 24 giugno come festa del Quebec che il Canada day del primo luglio. Il Constitution act del 1982 voluto dal presidente liberale Trudeau fu approvato nonostante il voto contrario del Quebec, che non vedeva tutelati i propri diritti linguistici e sull’istruzione. Nel referendum del 1980 i separatisti furono pesantemente sconfitti ma nel 1995 con il 49,4% furono a un passo dall’indipendenza. L’anno dopo la Corte Suprema Canadese, valutando delle rivendicazioni di indipendenza del Quebec, ha definito attentamente i limiti del principio di autodeterminazione: sono autorizzati ad avvalersene ex colonie, popoli soggetti a dominio militare straniero e gruppi sociali cui le autorità rifiutino un effettivo diritto allo sviluppo politico, economico, sociale e culturale (Sentenza 385/1996). Ma Pauline Marois ha promesso di riproporlo e forse questa volta persino vincerlo.
Situazione ben più drammatica è quella dell’Irlanda del Nord, logorata da decenni di guerra civile. Celebre la battuta: Sono ateo. Sì ma ateo cattolico o protestante? In questo caso una controversia religiosa è divenuta anche nazionalistica. L’obiettivo sarebbe staccarsi dal Regno Unito per riunirsi alla Repubblica Irlandese. Il Nordirlanda è un’area socialmente ed economicamente depressa, l’industria e il terzo settore dipendono in buona parte da sovvenzioni statali. Nel 1997 con la vittoria delle elezioni di Tony Blair, l’IRA annunciò un cessate-il-fuoco e iniziarono le non facili trattative, fino al 2005 quando si arrivò alla fine della lotta armata. Anche la parte repubblicana dell’Irlanda si è abbondantemente inglesizzata, ma il nuovo presidente laburista Higgins ha ridato slancio al gaelico. Il 2 settembre a Belfast si sono verificati incidenti nati dal tentativo di un gruppo di protestanti di interrompere un corteo organizzato dai repubblicani e cattolici. I due gruppi sono venuti a contatto per alcuni minuti e decine di poliziotti, nel tentativo di disperdere la folla, sono stati colpiti da pietre, mattoni e bombe molotov. Sono 47 i poliziotti rimasti feriti nel corso degli scontri. Inoltre, nonostante l’IRA storica ormai sia nelle istituzioni, frange intransigenti continuano azioni di lotta armata contro le autorità. L’alta tensione che regna in un territorio senza futuro dimostra che nonostante l’accordo di pace il problema non sia affatto risolto.
Altro cruccio del Regno Unito è la questione scozzese, che affonda nei secoli più remoti. Lo Scottish national party di Alex Salmond ha conquistato la maggioranza assoluta del Parlamento di Edimburgo con 69 deputati e il primo ministro ha dichiarato che indirà il referendum per l’indipendenza a data da destinarsi. Come Rajoy in Spagna, anche David Cameron ha subito fatto sapere che “farà di tutto per tenere unito il Paese”. Secondo i nazionalisti in kilt, oltre 500 milioni di barili di greggio estratti ogni anno dal mare scozzese potrebbero fruttare 54 miliardi di sterline di tasse al paese da qui al 2017. Ma la Scozia ha anche le peggiori disuguaglianze in sanità e speranza di vita più bassa dell’intera Europa occidentale. L’indipendenza ha i suoi pro e contro. Nonostante la devolution di significative competenze normative a favore della Scozia, il Parlamento del Regno Unito ha ancora facoltà di ‘make laws for Scotland’ esercitando la clausola di supremazia presente nella section 28 dello Scotland Act. A Edimburgo stanno valutando se trattare un’uscita ‘soft’, restando legati al Regno Unito come reame del Commonwealth al pari di Australia, Nuova Zelanda, Canada etc.
Infine caso atipico è quello del Belgio. Questo paese fu creato nel 1830 con un compromesso politico. I forti contrasti tra francesi e fiamminghi imposero l’insediamento di Leopoldo I, un re che poco aveva a che fare con quelle terre, per ristabilire un precario ordine. L’articolo 4 della moderna Costituzione belga individua tre Comunità (francese, fiamminga e tedesca) e quattro regioni linguistiche (quella francofona, quella di lingua olandese, la regione bilingue di Bruxelles e quella germanofona). Recentemente abbiamo assistito ad un curioso vuoto politico durato quasi due anni, nell’incapacità di formare un governo. Infine otto partiti fiamminghi e valloni hanno dato vita a una coalizione da cui restano fuori i nazionalisti fiamminghi del partito di Bart de Wever, che sin qui aveva bloccato ogni possibile intesa. Il socialista vallone Elio Di Rupo (di origine italiana) è stato nominato primo ministro. In effetti vi sono persino due partiti socialisti, uno vallone ed uno fiammingo. I rancori che i fiamminghi hanno maturato nei confronti dei valloni, rei di avere discriminato il fiammingo, aiutano a capire incresciose situazioni di questo genere a causa delle quali il Belgio si sarebbe già spaccato definitivamente in due, se non fosse per la persistente comune lealtà verso la Casa regnante. Provai a discutere con un giovane militante socialista fiammingo sulla compatibilità tra socialismo e monarchia. In principio parve imbarazzato, poi cercò dentro di sè una ragione qualsiasi per sostenere il re e la trovò nel suo subconscio, nell’unità nazionale del suo fragile paese appeso ad un filo e nel timore di vederlo dilaniato e ridotto all’irrilevanza. In Belgio non c’è una regione o provincia secessionista, ma l’intero paese diviso in due. Sembra che Di Rupo abbia dato nuova fiducia ai belgi, ma per quanto?
Non posso negare di provare una certa simpatia per questi movimenti, perché nascono da domande reali di autodeterminazione e libertà di popoli con una cultura, una lingua e una storia propria. Niente a che vedere con il ridicolo siparietto padano. La simpatia accresce quando questi popoli vogliono passare da sudditi di un re a cittadini di una repubblica. L’auspicio di tutti è che questi processi avvengano nella nonviolenza. Per quanto riguarda i casi del Vecchio Continente, saranno un ulteriore banco di prova nel costruire gli Stati Uniti d’Europa formati dai popoli, al loro interno sfaccettati e ricchi, ma all’esterno uniti e compatti. In varietate concordia.

MATTEO PUGLIESE

XXI secolo, la storia si ripete: riformisti e massimalisti in America Latina

Il socialismo è un modo di agire, di pensare e di intendere la società che è nato assieme all’uomo. Esiste da sempre. Ma il socialismo come dottrina politica e movimento sociale e culturale ha iniziato a diffondersi in Europa a partire dall’Ottocento. I cosiddetti “padri” del socialismo che hanno contribuito a diffondere i principi della dottrina e a gettare le basi per la costruzione progressiva dei primi partiti socialisti europei sono numerosi: da Saint-Simon a Fourier, da Sorel a Bakunin, da Marx a Engels, da Proudhon a Lassalle, da Babel al nostro Giuseppe Mazzini. I primi movimenti organizzati iniziarono a formarsi nei grandi paesi europei dalla fine dell’Ottocento all’inizio del secolo scorso grazie a grandi esponenti politici e sindacali che sulle tesi dei padri storici crearono i primi partiti politici socialisti: Bernstein in Germania, Turati e Andrea Costa in Italia, e così via fino a Lafargue, Plekanov, Victor Adler e Guesde. Vennero fondati l’Spd tedesco, il Psi italiano, il Labour Party anglosassone e diversi altri partiti di stampo socialista e marxista.
Da subito però iniziarono a nascere due grandi e diverse correnti all’interno degli stessi partiti. Correnti che si differenziavano non nel modo di intendere il socialismo, ma nei modi e nei mezzi per applicare quest’ultimo in una società capitalista. La corrente rivoluzionaria professava il rovesciamento del sistema capitalista e, attraverso la lotta armata e la rivoluzione, mirava ad imporre un regime operaio applicando un’economia socialista. La corrente dei riformisti invece non voleva abbattere il capitalismo ma superarlo lentamente e gradualmente attraverso una serie di riforme sociali e nel pieno rispetto della legalità. Per alcuni anni queste due correnti convissero all’interno dello stesso partito cui appartenevano in nome del nemico comune da battere: il capitalismo e le diseguaglianze sociali. In un secondo tempo, a partire dagli anni Venti del secolo scorso iniziarono le grandi scissioni interne che portarono alla divisione tra i riformisti, che rimasero “socialisti”, e la creazione di grandi partiti comunisti sulle tesi russe di Nicola Lenin, completamente rivoluzionari e filosovietici. Riformisti e rivoluzionari saranno sempre, da quel momento in poi, eterni antagonisti all’interno delle sinistre europee. Un’eccezione fu la parentesi del nazifascismo, dove riformisti e rivoluzionari, almeno in Italia, tornarono a combattere assieme in nome del nuovo nemico comune da battere: la dittatura nazifascista. Nel corso della storia, diversi “orrori” commessi dal comunismo sovietico portarono alla sconfitta intellettuale del metodo massimalista (dal programma massimo dei 21 punti di Mosca stilati da Lenin) e rivoluzionario ed alla vittoria storica e politica della socialdemocrazia. Tragiche vicende come il patto Molotov-Ribbentrop tra Russia comunista e Germania nazista, gli orrori commessi dietro la maschera di un preteso antifascismo, l’invasione dell’Ungheria da parte di Giuseppe Stalin, sono tutti eventi destinati a non ripetersi mai più. Il socialismo europeo ha avuto così una sola legittima impostazione, valida e conforme all’interno di sistemi democratici: la socialdemocrazia, destinata invece a rimanere ancora attuale.
A metà degli anni Novanta del secolo scorso, la storia sembra ripetersi. Stessa identica impostazione ideologica. Stesse correnti e stessi pensieri. Quasi le stesse realtà sociali. Stesse rivendicazioni. L’unica cosa diversa sembra essere solo l’area geografica e geopolitica: dall’Europa all’America Latina, e con quasi cento anni di differenza. “Il socialismo del XXI secolo”, è stato chiamato da qualche storico. Fatto sta che lo sviluppo degli eventi da dieci anni a questa parte, della situazione politica, economica e sociale del Sudamerica ci suona molto familiare. L’unica grande differenza sostanziale tra l’Europa di inizio Novecento e l’attuale situazione del Sudamerica è che quest’ultimo gode oggi di un enorme vantaggio rispetto al nostro continente; se è vero infatti che la Storia è maestra di vita, l’America Latina deve stare attenta a non ripetere gli errori del passato fatti dall’Europa. Essa può e deve fare tesoro di quanto accaduto agli inizi del secolo scorso in Europa ed agire di conseguenza.
Ma cominciamo col parlare della situazione sociale. Gli attori ci sono tutti e sembrano gli stessi: nel primo Novecento europeo la classe “povera” era quella dei contadini agricoli, ma i tempi sembravano già maturi per l’ascesa di una nuova classe: quella del proletariato, nata con l’affermarsi dell’industrializzazione in tutta Europa. Insomma, la presenza di una classe povera, di una classe lavoratrice, di una classe sfruttata. Oggi in America Latina la classe che incarna quella del proletariato e dei contadini agli albori del XX secolo è rappresentata dagli indios. Era impensabile nel periodo dell’Italia o dell’Europa capitalista la presenza in politica di deputati provenienti da classi diverse da quelle borghesi. E ciò che rafforzava e proteggeva tale sistema era la presenza di una legge elettorale estremamente censitaria ed elitaria. La grande rivoluzione fu l’ascesa al Parlamento di deputati provenienti dalle classi povere, contadine ed operaie. E molti furono i deputati socialisti che riuscirono ad ottenere tale storico risultato. Prima si distinguevano tra le masse operaie come organizzatori di scioperi, come leader morali di un gruppo di lavoratori e ben presto la loro fama cresceva da territorio in territorio, fino divenire celebri in intere regioni italiane come sindacalisti delle varie camere del lavoro. Infine, come coronamento della loro opera, si candidavano in Parlamento e venivano eletti con i voti operai.
Stessa cosa in Sudamerica: prendiamo ad esempio Evo Morales, attuale presidente della Bolivia. È la storia di un uomo che è diventato il primo presidente indio a guidare lo stato boliviano in oltre 500 anni dalla conquista spagnola. Morales è il leader del movimento sindacale dei cocaleros boliviani, una federazione di colonizzatori campesinos quechua e aymara e coltivatori di coca che si oppongono agli sforzi, principalmente degli Stati Uniti, di sradicare le coltivazioni di coca nella provincia di Chapare, nella Bolivia centro-orientale. Morales è anche il fondatore e leader del partito politico boliviano Movimiento al Socialismo, Mas, il principale partito di governo. Altra grande analogia risiede nella presenza di un “nemico” da abbattere: il socialismo europeo delle origini aveva come antagonista storico il sistema capitalista borghese. L’America Latina oggi si batte contro le grandi lobby finanziarie mondiali come il Fondo Monetario Internazionale e contro il capitalismo degli Stati Uniti d’America e la sua politica estera imperialistica che non permette agli stati poveri del Sudamerica di essere completamente indipendenti. Un’analogia tutt’altro che minima. L’obiettivo comune di tutti gli stati latini è infatti il raggiungimento della più totale indipendenza dagli Usa. Durante il periodo dell’insediamento del presidente Hugo Chavez in Venezuela, ad esempio, gli Usa finanziarono i media venezuelani per mandare in onda filmati e telegiornali “adattati” nel trasmettere solo immagini e filmati contro il neo-presidente. Finanziarono un vero e proprio golpe contro il neoeletto Hugo Chavez, golpe che però non andò a buon fine.
In più l’ex premier brasiliano Lula, in un’intervista, dichiarò che quando andò al Fondo Monetario Internazionale per saldare il conto dei prestiti, l’istituzione finanziaria non aveva alcun interesse nel riprendersi i soldi e disse a Lula di tenersi i soldi ancora per qualche anno. Questa vicenda appare molto curiosa se pensiamo ai mesi di tempo che invece l’Fmi impiega per rispondere alle richieste di prestito da parte dei Paesi del terzo mondo africano.
L’ennesima analogia con la storia del socialismo europeo di inizio secolo è rappresentata ovviamente dalle due grandi correnti socialiste: come al solito riformisti e rivoluzionari. Ad oggi interpretate dai “lulisti” e dagli “chavisti”. I paesi latini alleati con il Brasile di Lula e la neo-presidentessa Rousseff sono infatti più moderati rispetto ai paesi dell’Alleanza bolivariana rappresentati dal Venezuela di Chavez. Le analogie ci porterebbero dunque a pensare che i partiti della Seconda Internazionale del 1889 hanno oggi il loro equivalente nell’alleanza socialdemocratica dei lulisti, mentre la Russia e il blocco comunista della Terza Internazionale o Comintern sono meglio incarnati nell’Alleanza bolivariana di Hugo Chavez, Evo Morales, Raul Castro e gli altri. In teoria sì. Ma in realtà c’è una non sottile differenza: le due grandi correnti socialiste questa volta non sono in lotta fra loro, ma sono invece amiche e alleate.
I riformisti socialdemocratici oggi non sono emarginati e perseguitati dai massimalisti, anzi, essi rappresentano la maggiore potenza del socialismo sudamericano, grazie al Brasile di Lula e Rousseff che è diventato, negli ultimi quindici anni, una delle maggiori potenze economiche mondiali. In più Hugo Chavez, leader indiscusso dei bolivariani rivoluzionari e nazionalisti, ha dichiarato in diverse interviste che Lula è “suo fratello” e che tra i due c’è un rapporto di amicizia fraterna non indifferente. Il progetto di Lula mira a fare di tutto il Sudamerica una delle piu grandi potenze mondiali, al pari degli Stati Uniti, dell’Unione Europea e della Russia. Lulisti e Chavisti hanno in comune molti caratteri come il perseguimento dell’obiettivo comune dell’indipendenza dagli Usa e dell’eliminazione totale delle disparità sociali tra classi ricche e classi povere, con il riconoscimento dei pieni diritti degli indios. L’unica, e ad avviso di chi scrive anche grande, differenza tra i nuovi riformisti latini e i nuovi rivolucionarios sta nell’accettazione o meno del sistema democratico dell’alternanza.
I nuovi massimalisti hanno infatti il difetto di “innamorarsi” troppo del potere; tant’è che in diversi paesi dove governano presidenti chavisti, questi ultimi hanno provato, negli anni, a presentare leggi di riforma istituzionale che potessero permetter loro di restare al potere quasi in eterno. Viceversa, Lula e gli altri leader socialdemocratici hanno accettato il sistema dell’alternanza democratica e sono più inclini a sostenere ed a mandare avanti il partito politico piuttosto che il suo leader.
Un esempio calzante può essere quello del Guatemala: alla fine del suo mandato, il presidente socialista Golom aveva intenzione di presentare come candidata sua moglie, ma il sistema non lo permetteva. Il vecchio presidente tuttavia ebbe la geniale pensata di divorziare da quest’ultima per il solo fine di permettere la candidatura della donna. Un divorzio “a tavolino”. Golom fu poi condannato per frode. Per questi motivi i governi dell’alleanza bolivariana sono spesso criticati ed accusati dai media di essere delle dittature. Ma persino nel Venezuela di Chavez, dove governa appunto il maggiore dei leader bolivariani, le accuse di dittatura cadono in quanto Chavez è stato sempre eletto democraticamente con i voti dei propri cittadini e, nella recentissima consultazione elettorale, il suo avversario non è arrivato lontano dalla metà dei suffragi. L’unica analogia preoccupante potrebbe essere quella che vide l’alleanza tra Stalin e la Russia comunista con Hitler e la Germania nazista, alleanza che oggi potrebbe essere benissimo paragonata con le simpatie di Hugo Chavez nei confronti dell’iraniano Ahmadinejad. Ma si sa che Chavez, il quale ha sempre tenuto ad apparire su numerose fotografie e video abbracciato allo spietato leader iraniano, faccia questo più per dispetto nei confronti degli Stati Uniti che per qualcos’altro.
Un’ulteriore differenza tra le due correnti sta nel fatto che nei paesi socialdemocratici vi è una importante presenza di donne leader. È il caso del Brasile della Rousseff, dell’Argentina della Kirchner e della Costa Rica della Chinchilla Miranda. Inesistenti invece nei paesi chavisti. Tutto calza a pennello, insomma, i ruoli sono gli stessi, gli obiettivi pure, i protagonisti anche. Siamo di fronte alla battaglia socialista del Ventunesimo secolo? Questo non lo sappiamo. Ciò che sappiamo, però, è che stavolta le due correnti non stanno ripetendo gli stessi errori del passato. Gli ideali rivoluzionari dei massimalisti non sono ancora sfociati in dittature repressive e autenticamente comuniste e i riformisti, ad oggi, rappresentano grazie al Brasile la maggiore potenza economica del Sudamerica. Il tutto in un clima di leale collaborazione e profonda amicizia fraterna.

GIUSEPPE FERONE

Editoriale: I giovani socialisti, l’identità e le primarie

Sono fermamente convinto che le primarie del nuovo centro-sinistra non saranno un avvenimento senza incidenza nei prossimi dieci anni della vita politica italiana. Penso di poterlo affermare con la certezza di non essere smentito dai fatti, perché la preparazione di questo appuntamento, sebbene già sperimentata nel recente passato, stavolta impone delle riflessioni più approfondite, in considerazione delle circostanze esterne ed interne in cui tutto si svolge.
È abbastanza ragionevole che la qualità più importante di queste riflessioni riconduca alla questione delle alleanze e, in ultima analisi, della collocazione strategica di una sinistra che si candidi stabilmente a governare un paese con le caratteristiche geo-politiche e geo-economiche che ha l’Italia. Il confronto, che si profila piuttosto netto, fra le posizioni che trovano in Matteo Renzi il punto di riferimento e di coagulo, e quelle dell’apparato a sostegno di Pier Luigi Bersani, è soltanto apparentemente nominalistico.
C’è una parte del Pd che si pone, pur con ambiguità, contraddizioni e qualche antico pregiudizio, il problema di trasformare la “sinistra istituzionale” confluita nel Pd dall’esperienza post-comunista in una compiuta sinistra riformista di governo, seppur all’interno di un partito che non si richiama più, almeno nella sua interezza, alla sinistra storicamente intesa. Dall’altro lato, c’è chi teorizza il partito liquido della “rottamazione”, ibrido, disinvolto e sostanzialmente disancorato da qualsivoglia questione di identità politica.
In tutto ciò, l’Italia in questi ultimi tempi è tornata ad essere un paese di frontiera: non più nel bipolarismo americano-sovietico, ma nelle nuove dimensioni bipolari tra le democrazie compiute della sponda Nord del Mediterraneo e quelle incompiute di alcuni paesi della riva meridionale, tra economie in crisi ma ancora in piedi (come la nostra) e sistemi spacciati come la Grecia o il Portogallo. Che questo nuovo bipolarismo sia percepito come lontano dalla vita di tutti i giorni, specialmente da Roma in su, non vuol dire che esso non pesi in modo significativo nei comportamenti politici dei protagonisti nella scena mondiale e, di conseguenza, nelle realtà nazionali. Lo schematismo della contrapposizione e la rinnovata enfasi dell’appartenenza, saranno dominanti nei prossimi mesi, nel linguaggio della politica e nella descrizione dei processi di assestamento in atto nella vecchia Europa e nel Mediterraneo. Qualcuno, specialmente nel mondo dell’antagonismo, sembra ben lieto di un possibile imbarbarimento della politica, come ci dimostra il risultato dei partiti estremisti in Grecia. Le contrapposizioni agevolano sì l’identità, ma senza porre i problemi di spessore strategico e di concretezza, che accompagnano la costruzione di un soggetto politico forte.
In questo contesto, la scelta di chiedere agli elettori del centro-sinistra di partecipare alle primarie, senza porre prima il problema del percorso da realizzare, è una vecchia abitudine. Da Bersani ci si aspetta che chiarisca cosa ha da dire la sinistra delle istituzioni interna al Pd che vuol diventare sinistra riformista di governo. Questo problema passa, ancora una volta, per il rapporto con il Partito del Socialismo Europeo e con l’Internazionale Socialista. Come giovani socialisti, dobbiamo assumerci la responsabilità di dire che non è possibile aggregarsi ad alcuno dei due carri del Pd che si profilano in vista delle primarie. Occorre una posizione autonoma e ragionevolmente identitaria dell’area laica-socialista: questa volta il compromesso non serve a nessuno.

ANTONIO MATASSO