Editoriale: Flaiano aveva ragione?

Il rituale della lotta politica è stato per decenni, ma forse anche per secoli, dominato dal messaggio: «grandi difficoltà ci attendono, ma con l’aiuto di tutti ce la faremo». Che si trattasse di promettere lagrime, sudore e sangue o di domandare se si preferissero i cannoni al burro, dai leader ci si aspettava un rituale capace di scaldare i cuori e spingerli oltre qualunque ostacolo (o barricata, che dir si voglia). La forza di questo paradigma retorico, negli anni, lo ha fatto vivere ben oltre le guerre direttamente guerreggiate e i momenti gloriosi e coinvolgenti. Chiunque abbia frequentato congressi e manifestazioni politiche conserva nel petto il ricordo degli scenari tratteggiati nelle relazioni introduttive. I grandi e foschi avversari, la necessità che ognuno portasse il suo apporto e così via. Un corollario essenziale di questi ragionamenti era che la vittoria stava forse a portata di mano, ma certamente era tutt’altro che sicura. Nessun politico avrebbe mai commesso l’errore di dirsi certo della sconfitta degli avversari.
Si riteneva, non a torto, che la convinzione del risultato già acquisito avrebbe sottratto energie al proprio schieramento. Si pensava che i dubbiosi e i pigri si sarebbero sottratti al voto senza una motivazione ultimativa e fortissima. I partiti non si potevano presentare come troppo sicuri; essi dovevano sembrare bisognosi dell’aiuto di ognuno e insicuri del loro destino. Del resto, quando un intraprendente uomo di comunicazione scrisse negli anni ‘60 sui manifesti “La Dc ha venti anni”, gli italiani (e tra loro, i socialisti) glossarono che fosse ora di deflorarla, aggiornando rapidamente i termini della politica di scambio. Oggi assistiamo al rovesciamento totale di questa logica consolidata. Che Berlusconi abbia iniziato la sua carica contro gli avversari dichiarando e ripetendo ogni giorno che un fronte di “moderati” non più guidato da lui, con il recupero di Fini e Casini, è certamente prossimo alla vittoria, appare abbastanza scontato. Il Cavaliere deve rimettere in carreggiata un esercito in fuga, mostrando la possibilità della vittoria, anche al prezzo di cedere lo scettro ad altri (ed il nome di Monti non sembra quello più probabile). Meno si capisce l’ansia con cui Alfano si affanna a delegittimare i sondaggi che danno il Pdl in caduta libera ed a dichiarare, insieme al suo poco affidabile stato maggiore, la certezza che il suo partito tornerà ad essere il primo, nonostante le sempre più forti minacce di scissione dagli ex An.
L’unica spiegazione che rimane per questi insani rituali di vittoria è che, in assenza di altri contenuti, ci si affida a uno dei tanti geniali pensieri di Ennio Flaiano. Se è vero che gli italiani sono pronti ad accorrere in soccorso del vincitore, come è avvenuto al tempo in cui il centro-destra era ancora compatto, cosa di più efficace del seguitare a proclamarsi tale? Tuttavia, Flaiano ha anche scritto: «datemi l’abbraccio del lebbroso, ma risparmiatemi la stretta di mano del cretino».

ANTONIO MATASSO

Regione Lazio: perché votare subito

Come ormai noto a tutti, la Regione Lazio è priva, dallo scorso 28 settembre, di organi politici legittimati a governare. Essi operano in quell’interregno che gli studiosi del diritto costituzionale chiamano “prorogatio”, per significare l’intervallo di tempo tra la scadenza di un organo ed il suo rinnovo, in cui è necessario assicurare continuità istituzionale e quindi vengono riconosciuti agli organi scaduti alcuni limitati poteri, soprattutto di ordinaria amministrazione, sino all’insediamento dei nuovi a seguito della consultazione popolare.
Tradotto in termini più immediati, Giunta (dimissionata dal Presidente Polverini) e Consiglio regionale (“polverizzato” dallo squallido scandalo dei fondi PDL) restano in carica sino alle prossime elezioni per gli atti urgenti e indifferibili.
Ma quanto può durare questa prorogatio?
Per rispondere è necessario, anzitutto, considerare le norme.
La legge elettorale regionale del Lazio (n. 2 del 2005) prevede che, in caso di interruzione anticipata della legislatura, i comizi elettorali vengano convocati dal Presidente uscente entro 3 mesi, senza specificare se si debba trattare di mera individuazione della data oppure di vero e proprio svolgimento delle elezioni. Sul punto si è aperto in questi giorni uno stucchevole dibattito tra l’ex vertice della Regione Lazio – sprofondata sullo scandalo della sua maggioranza – e il Ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri, che si è espressa sin da subito per una interpretazione della legge in termini di buon senso, suggerendo, cioè, di andare al voto prima possibile per restituire ai cittadini del Lazio istituzioni pienamente legittimate e in grado di far ripartire l’azione amministrativa. A questa impostazione si è contrapposta quella dell’establishment vicino all’ex Presidente Polverini che, forse per ragioni insite nella volontà di tergiversare in attesa di uno scenario più favorevole al centrodestra, pare intenzionata a leggere la norma “alla lettera”, avvalendosi, così, di tutti i 90 giorni a disposizione per fissare la data delle elezioni.
La principale giustificazione addotta fa riferimento al contenimento della spesa pubblica e quindi all’opportunità di abbinare tutte le elezioni in un’unica data, il c.d. election day, probabilmente nel mese di aprile 2013.
Se così fosse, i cittadini del Lazio potrebbero trovarsi dinanzi ad una situazione davvero singolare: votare, insieme alle elezioni parlamentari, anche per il rinnovo delle istituzioni regionali, con tutte le conseguenze sul piano della procedura elettorale facilmente intuibili. Votare nello stesso giorno per il Consiglio regionale, potendo esprimere una preferenza, e per eleggere deputati e senatori rischierebbe di ingenerare confusione nell’elettorato, con il risultato di diluire il significato cruciale delle elezioni nazionali in una disputa locale, anche se di rilevanti dimensioni. In più se, come appare probabile, la riforma del porcellum dovesse reintrodurre il voto di preferenza anche a livello parlamentare, l’elettore riceverebbe due schede, con possibilità di esprimere preferenze, nell’ambito di due sistemi elettorali profondamente diversi. E la campagna elettorale sarebbe contestualmente condotta sul doppio livello, regionale e nazionale. Inoltre, nei Comuni in cui è previsto il rinnovo delle amministrazioni (su tutti, Roma Capitale), le schede potrebbero diventare 3, o addirittura 4 (a Roma infatti si voterà anche per i municipi di decentramento).
Siamo sicuri che tutto ciò favorisca una chiara, libera ed efficace articolazione del processo democratico? Si possono avanzare molti dubbi, perché l’obiettivo principale di ogni elezione dovrebbe consistere nella scelta di una rappresentanza e, nel caso di formule maggioritarie, anche di un governo. Ma gli elettori devono essere messi in condizione di operare scelte consapevoli, soprattutto in un momento di forte centrifugazione in favore di soggetti populistici e dalla carica antisistemica, ed in presenza di un contesto di multipartitismo estremo polarizzato, per utilizzare definizioni care al politologo francese Maurice Duverger e all’italiano Giovanni Sartori.
Inoltre, il 10 ottobre è stato emanato il decreto legge (n. 174) sui c.d.“costi della politica regionale”, che impone alle Regioni la riduzione della spesa degli organi di governo entro sei mesi dall’entrata in vigore del decreto, salvo il caso di Regioni soggette a imminenti consultazioni elettorali (rectius, il Lazio, e forse la Lombardia), per le quali i 6 mesi decorreranno dalla prima riunione del nuovo Consiglio regionale, salvo che per la diminuzione di consiglieri e assessori, che troverà automatica applicazione anche in assenza di un intervento regionale di adeguamento dello Statuto. Alla luce di tale impianto normativo, il prossimo Consiglio regionale del Lazio sarà composto da 50 membri più il Presidente, e gli assessori non potranno essere più di 10.
Tale ragione induce a ritenere ragionevole un’individuazione tempestiva della data per lo svolgimento delle elezioni, così da consentire ai nuovi organi, legittimati, l’introduzione delle misure di risparmio della spesa richieste dal Governo, che implicheranno profonde revisioni all’assetto istituzionale e normativo dell’ente.
A queste argomentazioni di carattere tecnico se ne possono aggiungere altre dalla valenza più politica. Tenere in vita istituzioni regionali, vulnerate da beceri e grossolani scandali nella loro immagine ed operatività dinanzi all’opinione pubblica, non contribuisce a restituire ai cittadini quella fiducia verso i soggetti politici necessaria per una virtuosa articolazione delle procedure democratiche.
L’impressione, purtroppo, è che, invece, si vogliano utilizzare cavilli normativi per ritardare un voto indifferibile, soltanto per ragioni di mero calcolo particolaristico che speravamo di aver debellato, ma che, evidentemente, costituiscono ancora l’asse portante di questa nostra infausta seconda Repubblica, e non solo a livello locale.

VINCENZO IACOVISSI

Catalogna, Quebec, Scozia, Belgio: possibili secessioni

Quello che anni fa era chiamato il “Primo Mondo”, insomma l’Occidente, è scosso dalla crisi economica e sociale che è diventata ora politica e culturale. Tra le sue conseguenze vi sono anche quelle aspirazioni nazionaliste fin’ora sopite dal benessere e dalla sazietà di risposte sull’identità. Si sono risvegliati numerosi secessionisti tra le due sponde dell’Atlantico, tenterò di farne il punto caso per caso.
Questo 11 settembre per la Diada, festa nazionale catalana, sono scesi in piazza un milione e mezzo di persone, tra cui Pep Guardiola, ex allenatore del Barcellona. Tutti con Estelada blava o Estelada roja, le versioni indipendentiste della Senyera, bandiera catalana. Carme Forcadell, attivista per l’indipendenza, ha detto: “Abbiamo capito che quest’anno sarebbe stato eccezionale per la festa della Diada: i pullman non bastavano e non c’erano più bandiere catalane nei negozi. Persino i cinesi non le avevano”. Secondo un sondaggio de La Vanguardia circa il 55% della popolazione della Catalogna è a favore dell’indipendenza (solo il 33 contrario) rispetto al 51% dello scorso maggio. Con il patto fiscale Madrid trattiene oltre 16 miliardi di euro di Pil, insomma la Catalogna riceve meno di quanto versa. Da poco, oltre alla Sinistra Repubblicana, anche Convergencia i Union, partito conservatore, è a favore dell’indipendenza. Il presidente del Barcellona club Sandro Rosell ha dichiarato: “Il giorno che la Catalogna deciderà per l’indipendenza, il Barça sarà al suo fianco”. Sospinto da quest’onda irripetibile, il presidente conservatore Artur Mas ha convocato il 25 novembre elezioni anticipate, sperando in caso di vittoria dei due partiti indipendentisti (il Partito Socialista Catalano è contrario) di indire un referendum, che Madrid considera anticostituzionale. È vero, un referendum per l’indipendenza catalana sarebbe illegittimo per la Costituzione spagnola, ma ci si potrebbe rivolgere a organismi internazionali appellandosi all’autodeterminazione dei popoli, sancita dalla Carta delle Nazioni Unite. Rajoy ha dichiarato che non farà alcuna concessione alla Catalogna sull’indipendenza, non solo per il rischio di caduta del governo, ma anche per paura di essere ricordato come colui che ha permesso la secessione della regione autonoma. Ad aumentare ulteriormente l’orgoglio della Comunità Autonoma ci ha pensato il ministro dell’istruzione di Madrid, Jose’ Ignacio Wert, dichiarando “intenzione del governo spagnolizzare i bambini catalani”. Ma gli indipendentisti non vedono contraddizione tra la frammentazione della Spagna e la costruzione degli Stati Uniti d’Europa. La prima effettiva apertura al principio di autonomia ebbe luogo durante la Seconda Repubblica spagnola, che favorì l’istituzione delle prime autonomie regionali in Catalogna, Paesi baschi e Galizia. La Costituzione post franchista ha lasciato ampio margine di discrezionalità sulle attribuzioni dell’autonomia e della stesura degli Statuti. Carme Forcadell conclude: “Non volevo che il catalano finisse come il gaelico e ho capito che affinché non accadesse bisognava costruirgli attorno una nazione”.
In Quebec, Provincia del Canada, tutto è (ri)cominciato con le proteste studentesche, ribattezzate Primavera degli aceri, contro l’aumento del 75% delle rette universitarie, circa 4mila euro, che hanno portato alle dimissioni il ministro dell’istruzione del governo conservatore della Provincia, Lina Beauchamp. Alle successive elezioni del 4 settembre il Parti Quebecois – indipendentista – nonostante non abbia ottenuto la maggioranza assoluta ha vinto come non succedeva da anni e formerà un governo di minoranza. Proprio mentre la neo prima ministra indipendentista Pauline Marois festeggiava la vittoria in una sala concerti di Montreal, un uomo di mezz’età armato di carabina si è avvicinato e ha fatto fuoco uccidendo una persona e ferendone un’altra. Mentre veniva arrestato ha gridato “gli inglesi si stanno risvegliando”. Il Canada nacque sulla base di un patto tra ‘due popoli fondatori’ e un dualismo: linguistico inglese/francese, religioso cattolico/protestante, giuridico civil law/common law. Il francese è parlato dall’80% dei 7,8 milioni di abitanti della Provincia, che festeggia di più il 24 giugno come festa del Quebec che il Canada day del primo luglio. Il Constitution act del 1982 voluto dal presidente liberale Trudeau fu approvato nonostante il voto contrario del Quebec, che non vedeva tutelati i propri diritti linguistici e sull’istruzione. Nel referendum del 1980 i separatisti furono pesantemente sconfitti ma nel 1995 con il 49,4% furono a un passo dall’indipendenza. L’anno dopo la Corte Suprema Canadese, valutando delle rivendicazioni di indipendenza del Quebec, ha definito attentamente i limiti del principio di autodeterminazione: sono autorizzati ad avvalersene ex colonie, popoli soggetti a dominio militare straniero e gruppi sociali cui le autorità rifiutino un effettivo diritto allo sviluppo politico, economico, sociale e culturale (Sentenza 385/1996). Ma Pauline Marois ha promesso di riproporlo e forse questa volta persino vincerlo.
Situazione ben più drammatica è quella dell’Irlanda del Nord, logorata da decenni di guerra civile. Celebre la battuta: Sono ateo. Sì ma ateo cattolico o protestante? In questo caso una controversia religiosa è divenuta anche nazionalistica. L’obiettivo sarebbe staccarsi dal Regno Unito per riunirsi alla Repubblica Irlandese. Il Nordirlanda è un’area socialmente ed economicamente depressa, l’industria e il terzo settore dipendono in buona parte da sovvenzioni statali. Nel 1997 con la vittoria delle elezioni di Tony Blair, l’IRA annunciò un cessate-il-fuoco e iniziarono le non facili trattative, fino al 2005 quando si arrivò alla fine della lotta armata. Anche la parte repubblicana dell’Irlanda si è abbondantemente inglesizzata, ma il nuovo presidente laburista Higgins ha ridato slancio al gaelico. Il 2 settembre a Belfast si sono verificati incidenti nati dal tentativo di un gruppo di protestanti di interrompere un corteo organizzato dai repubblicani e cattolici. I due gruppi sono venuti a contatto per alcuni minuti e decine di poliziotti, nel tentativo di disperdere la folla, sono stati colpiti da pietre, mattoni e bombe molotov. Sono 47 i poliziotti rimasti feriti nel corso degli scontri. Inoltre, nonostante l’IRA storica ormai sia nelle istituzioni, frange intransigenti continuano azioni di lotta armata contro le autorità. L’alta tensione che regna in un territorio senza futuro dimostra che nonostante l’accordo di pace il problema non sia affatto risolto.
Altro cruccio del Regno Unito è la questione scozzese, che affonda nei secoli più remoti. Lo Scottish national party di Alex Salmond ha conquistato la maggioranza assoluta del Parlamento di Edimburgo con 69 deputati e il primo ministro ha dichiarato che indirà il referendum per l’indipendenza a data da destinarsi. Come Rajoy in Spagna, anche David Cameron ha subito fatto sapere che “farà di tutto per tenere unito il Paese”. Secondo i nazionalisti in kilt, oltre 500 milioni di barili di greggio estratti ogni anno dal mare scozzese potrebbero fruttare 54 miliardi di sterline di tasse al paese da qui al 2017. Ma la Scozia ha anche le peggiori disuguaglianze in sanità e speranza di vita più bassa dell’intera Europa occidentale. L’indipendenza ha i suoi pro e contro. Nonostante la devolution di significative competenze normative a favore della Scozia, il Parlamento del Regno Unito ha ancora facoltà di ‘make laws for Scotland’ esercitando la clausola di supremazia presente nella section 28 dello Scotland Act. A Edimburgo stanno valutando se trattare un’uscita ‘soft’, restando legati al Regno Unito come reame del Commonwealth al pari di Australia, Nuova Zelanda, Canada etc.
Infine caso atipico è quello del Belgio. Questo paese fu creato nel 1830 con un compromesso politico. I forti contrasti tra francesi e fiamminghi imposero l’insediamento di Leopoldo I, un re che poco aveva a che fare con quelle terre, per ristabilire un precario ordine. L’articolo 4 della moderna Costituzione belga individua tre Comunità (francese, fiamminga e tedesca) e quattro regioni linguistiche (quella francofona, quella di lingua olandese, la regione bilingue di Bruxelles e quella germanofona). Recentemente abbiamo assistito ad un curioso vuoto politico durato quasi due anni, nell’incapacità di formare un governo. Infine otto partiti fiamminghi e valloni hanno dato vita a una coalizione da cui restano fuori i nazionalisti fiamminghi del partito di Bart de Wever, che sin qui aveva bloccato ogni possibile intesa. Il socialista vallone Elio Di Rupo (di origine italiana) è stato nominato primo ministro. In effetti vi sono persino due partiti socialisti, uno vallone ed uno fiammingo. I rancori che i fiamminghi hanno maturato nei confronti dei valloni, rei di avere discriminato il fiammingo, aiutano a capire incresciose situazioni di questo genere a causa delle quali il Belgio si sarebbe già spaccato definitivamente in due, se non fosse per la persistente comune lealtà verso la Casa regnante. Provai a discutere con un giovane militante socialista fiammingo sulla compatibilità tra socialismo e monarchia. In principio parve imbarazzato, poi cercò dentro di sè una ragione qualsiasi per sostenere il re e la trovò nel suo subconscio, nell’unità nazionale del suo fragile paese appeso ad un filo e nel timore di vederlo dilaniato e ridotto all’irrilevanza. In Belgio non c’è una regione o provincia secessionista, ma l’intero paese diviso in due. Sembra che Di Rupo abbia dato nuova fiducia ai belgi, ma per quanto?
Non posso negare di provare una certa simpatia per questi movimenti, perché nascono da domande reali di autodeterminazione e libertà di popoli con una cultura, una lingua e una storia propria. Niente a che vedere con il ridicolo siparietto padano. La simpatia accresce quando questi popoli vogliono passare da sudditi di un re a cittadini di una repubblica. L’auspicio di tutti è che questi processi avvengano nella nonviolenza. Per quanto riguarda i casi del Vecchio Continente, saranno un ulteriore banco di prova nel costruire gli Stati Uniti d’Europa formati dai popoli, al loro interno sfaccettati e ricchi, ma all’esterno uniti e compatti. In varietate concordia.

MATTEO PUGLIESE

XXI secolo, la storia si ripete: riformisti e massimalisti in America Latina

Il socialismo è un modo di agire, di pensare e di intendere la società che è nato assieme all’uomo. Esiste da sempre. Ma il socialismo come dottrina politica e movimento sociale e culturale ha iniziato a diffondersi in Europa a partire dall’Ottocento. I cosiddetti “padri” del socialismo che hanno contribuito a diffondere i principi della dottrina e a gettare le basi per la costruzione progressiva dei primi partiti socialisti europei sono numerosi: da Saint-Simon a Fourier, da Sorel a Bakunin, da Marx a Engels, da Proudhon a Lassalle, da Babel al nostro Giuseppe Mazzini. I primi movimenti organizzati iniziarono a formarsi nei grandi paesi europei dalla fine dell’Ottocento all’inizio del secolo scorso grazie a grandi esponenti politici e sindacali che sulle tesi dei padri storici crearono i primi partiti politici socialisti: Bernstein in Germania, Turati e Andrea Costa in Italia, e così via fino a Lafargue, Plekanov, Victor Adler e Guesde. Vennero fondati l’Spd tedesco, il Psi italiano, il Labour Party anglosassone e diversi altri partiti di stampo socialista e marxista.
Da subito però iniziarono a nascere due grandi e diverse correnti all’interno degli stessi partiti. Correnti che si differenziavano non nel modo di intendere il socialismo, ma nei modi e nei mezzi per applicare quest’ultimo in una società capitalista. La corrente rivoluzionaria professava il rovesciamento del sistema capitalista e, attraverso la lotta armata e la rivoluzione, mirava ad imporre un regime operaio applicando un’economia socialista. La corrente dei riformisti invece non voleva abbattere il capitalismo ma superarlo lentamente e gradualmente attraverso una serie di riforme sociali e nel pieno rispetto della legalità. Per alcuni anni queste due correnti convissero all’interno dello stesso partito cui appartenevano in nome del nemico comune da battere: il capitalismo e le diseguaglianze sociali. In un secondo tempo, a partire dagli anni Venti del secolo scorso iniziarono le grandi scissioni interne che portarono alla divisione tra i riformisti, che rimasero “socialisti”, e la creazione di grandi partiti comunisti sulle tesi russe di Nicola Lenin, completamente rivoluzionari e filosovietici. Riformisti e rivoluzionari saranno sempre, da quel momento in poi, eterni antagonisti all’interno delle sinistre europee. Un’eccezione fu la parentesi del nazifascismo, dove riformisti e rivoluzionari, almeno in Italia, tornarono a combattere assieme in nome del nuovo nemico comune da battere: la dittatura nazifascista. Nel corso della storia, diversi “orrori” commessi dal comunismo sovietico portarono alla sconfitta intellettuale del metodo massimalista (dal programma massimo dei 21 punti di Mosca stilati da Lenin) e rivoluzionario ed alla vittoria storica e politica della socialdemocrazia. Tragiche vicende come il patto Molotov-Ribbentrop tra Russia comunista e Germania nazista, gli orrori commessi dietro la maschera di un preteso antifascismo, l’invasione dell’Ungheria da parte di Giuseppe Stalin, sono tutti eventi destinati a non ripetersi mai più. Il socialismo europeo ha avuto così una sola legittima impostazione, valida e conforme all’interno di sistemi democratici: la socialdemocrazia, destinata invece a rimanere ancora attuale.
A metà degli anni Novanta del secolo scorso, la storia sembra ripetersi. Stessa identica impostazione ideologica. Stesse correnti e stessi pensieri. Quasi le stesse realtà sociali. Stesse rivendicazioni. L’unica cosa diversa sembra essere solo l’area geografica e geopolitica: dall’Europa all’America Latina, e con quasi cento anni di differenza. “Il socialismo del XXI secolo”, è stato chiamato da qualche storico. Fatto sta che lo sviluppo degli eventi da dieci anni a questa parte, della situazione politica, economica e sociale del Sudamerica ci suona molto familiare. L’unica grande differenza sostanziale tra l’Europa di inizio Novecento e l’attuale situazione del Sudamerica è che quest’ultimo gode oggi di un enorme vantaggio rispetto al nostro continente; se è vero infatti che la Storia è maestra di vita, l’America Latina deve stare attenta a non ripetere gli errori del passato fatti dall’Europa. Essa può e deve fare tesoro di quanto accaduto agli inizi del secolo scorso in Europa ed agire di conseguenza.
Ma cominciamo col parlare della situazione sociale. Gli attori ci sono tutti e sembrano gli stessi: nel primo Novecento europeo la classe “povera” era quella dei contadini agricoli, ma i tempi sembravano già maturi per l’ascesa di una nuova classe: quella del proletariato, nata con l’affermarsi dell’industrializzazione in tutta Europa. Insomma, la presenza di una classe povera, di una classe lavoratrice, di una classe sfruttata. Oggi in America Latina la classe che incarna quella del proletariato e dei contadini agli albori del XX secolo è rappresentata dagli indios. Era impensabile nel periodo dell’Italia o dell’Europa capitalista la presenza in politica di deputati provenienti da classi diverse da quelle borghesi. E ciò che rafforzava e proteggeva tale sistema era la presenza di una legge elettorale estremamente censitaria ed elitaria. La grande rivoluzione fu l’ascesa al Parlamento di deputati provenienti dalle classi povere, contadine ed operaie. E molti furono i deputati socialisti che riuscirono ad ottenere tale storico risultato. Prima si distinguevano tra le masse operaie come organizzatori di scioperi, come leader morali di un gruppo di lavoratori e ben presto la loro fama cresceva da territorio in territorio, fino divenire celebri in intere regioni italiane come sindacalisti delle varie camere del lavoro. Infine, come coronamento della loro opera, si candidavano in Parlamento e venivano eletti con i voti operai.
Stessa cosa in Sudamerica: prendiamo ad esempio Evo Morales, attuale presidente della Bolivia. È la storia di un uomo che è diventato il primo presidente indio a guidare lo stato boliviano in oltre 500 anni dalla conquista spagnola. Morales è il leader del movimento sindacale dei cocaleros boliviani, una federazione di colonizzatori campesinos quechua e aymara e coltivatori di coca che si oppongono agli sforzi, principalmente degli Stati Uniti, di sradicare le coltivazioni di coca nella provincia di Chapare, nella Bolivia centro-orientale. Morales è anche il fondatore e leader del partito politico boliviano Movimiento al Socialismo, Mas, il principale partito di governo. Altra grande analogia risiede nella presenza di un “nemico” da abbattere: il socialismo europeo delle origini aveva come antagonista storico il sistema capitalista borghese. L’America Latina oggi si batte contro le grandi lobby finanziarie mondiali come il Fondo Monetario Internazionale e contro il capitalismo degli Stati Uniti d’America e la sua politica estera imperialistica che non permette agli stati poveri del Sudamerica di essere completamente indipendenti. Un’analogia tutt’altro che minima. L’obiettivo comune di tutti gli stati latini è infatti il raggiungimento della più totale indipendenza dagli Usa. Durante il periodo dell’insediamento del presidente Hugo Chavez in Venezuela, ad esempio, gli Usa finanziarono i media venezuelani per mandare in onda filmati e telegiornali “adattati” nel trasmettere solo immagini e filmati contro il neo-presidente. Finanziarono un vero e proprio golpe contro il neoeletto Hugo Chavez, golpe che però non andò a buon fine.
In più l’ex premier brasiliano Lula, in un’intervista, dichiarò che quando andò al Fondo Monetario Internazionale per saldare il conto dei prestiti, l’istituzione finanziaria non aveva alcun interesse nel riprendersi i soldi e disse a Lula di tenersi i soldi ancora per qualche anno. Questa vicenda appare molto curiosa se pensiamo ai mesi di tempo che invece l’Fmi impiega per rispondere alle richieste di prestito da parte dei Paesi del terzo mondo africano.
L’ennesima analogia con la storia del socialismo europeo di inizio secolo è rappresentata ovviamente dalle due grandi correnti socialiste: come al solito riformisti e rivoluzionari. Ad oggi interpretate dai “lulisti” e dagli “chavisti”. I paesi latini alleati con il Brasile di Lula e la neo-presidentessa Rousseff sono infatti più moderati rispetto ai paesi dell’Alleanza bolivariana rappresentati dal Venezuela di Chavez. Le analogie ci porterebbero dunque a pensare che i partiti della Seconda Internazionale del 1889 hanno oggi il loro equivalente nell’alleanza socialdemocratica dei lulisti, mentre la Russia e il blocco comunista della Terza Internazionale o Comintern sono meglio incarnati nell’Alleanza bolivariana di Hugo Chavez, Evo Morales, Raul Castro e gli altri. In teoria sì. Ma in realtà c’è una non sottile differenza: le due grandi correnti socialiste questa volta non sono in lotta fra loro, ma sono invece amiche e alleate.
I riformisti socialdemocratici oggi non sono emarginati e perseguitati dai massimalisti, anzi, essi rappresentano la maggiore potenza del socialismo sudamericano, grazie al Brasile di Lula e Rousseff che è diventato, negli ultimi quindici anni, una delle maggiori potenze economiche mondiali. In più Hugo Chavez, leader indiscusso dei bolivariani rivoluzionari e nazionalisti, ha dichiarato in diverse interviste che Lula è “suo fratello” e che tra i due c’è un rapporto di amicizia fraterna non indifferente. Il progetto di Lula mira a fare di tutto il Sudamerica una delle piu grandi potenze mondiali, al pari degli Stati Uniti, dell’Unione Europea e della Russia. Lulisti e Chavisti hanno in comune molti caratteri come il perseguimento dell’obiettivo comune dell’indipendenza dagli Usa e dell’eliminazione totale delle disparità sociali tra classi ricche e classi povere, con il riconoscimento dei pieni diritti degli indios. L’unica, e ad avviso di chi scrive anche grande, differenza tra i nuovi riformisti latini e i nuovi rivolucionarios sta nell’accettazione o meno del sistema democratico dell’alternanza.
I nuovi massimalisti hanno infatti il difetto di “innamorarsi” troppo del potere; tant’è che in diversi paesi dove governano presidenti chavisti, questi ultimi hanno provato, negli anni, a presentare leggi di riforma istituzionale che potessero permetter loro di restare al potere quasi in eterno. Viceversa, Lula e gli altri leader socialdemocratici hanno accettato il sistema dell’alternanza democratica e sono più inclini a sostenere ed a mandare avanti il partito politico piuttosto che il suo leader.
Un esempio calzante può essere quello del Guatemala: alla fine del suo mandato, il presidente socialista Golom aveva intenzione di presentare come candidata sua moglie, ma il sistema non lo permetteva. Il vecchio presidente tuttavia ebbe la geniale pensata di divorziare da quest’ultima per il solo fine di permettere la candidatura della donna. Un divorzio “a tavolino”. Golom fu poi condannato per frode. Per questi motivi i governi dell’alleanza bolivariana sono spesso criticati ed accusati dai media di essere delle dittature. Ma persino nel Venezuela di Chavez, dove governa appunto il maggiore dei leader bolivariani, le accuse di dittatura cadono in quanto Chavez è stato sempre eletto democraticamente con i voti dei propri cittadini e, nella recentissima consultazione elettorale, il suo avversario non è arrivato lontano dalla metà dei suffragi. L’unica analogia preoccupante potrebbe essere quella che vide l’alleanza tra Stalin e la Russia comunista con Hitler e la Germania nazista, alleanza che oggi potrebbe essere benissimo paragonata con le simpatie di Hugo Chavez nei confronti dell’iraniano Ahmadinejad. Ma si sa che Chavez, il quale ha sempre tenuto ad apparire su numerose fotografie e video abbracciato allo spietato leader iraniano, faccia questo più per dispetto nei confronti degli Stati Uniti che per qualcos’altro.
Un’ulteriore differenza tra le due correnti sta nel fatto che nei paesi socialdemocratici vi è una importante presenza di donne leader. È il caso del Brasile della Rousseff, dell’Argentina della Kirchner e della Costa Rica della Chinchilla Miranda. Inesistenti invece nei paesi chavisti. Tutto calza a pennello, insomma, i ruoli sono gli stessi, gli obiettivi pure, i protagonisti anche. Siamo di fronte alla battaglia socialista del Ventunesimo secolo? Questo non lo sappiamo. Ciò che sappiamo, però, è che stavolta le due correnti non stanno ripetendo gli stessi errori del passato. Gli ideali rivoluzionari dei massimalisti non sono ancora sfociati in dittature repressive e autenticamente comuniste e i riformisti, ad oggi, rappresentano grazie al Brasile la maggiore potenza economica del Sudamerica. Il tutto in un clima di leale collaborazione e profonda amicizia fraterna.

GIUSEPPE FERONE