Editoriale: Una politica laica, per credenti e non credenti

Nel suo celeberrimo pamphlet intitolato “La predica di Natale”, il socialista Camillo Prampolini affermava, riportando il contenuto di un suo comizio del 1897, in coincidenza con l’importantissima festa cristiana: «Lavoratori! Ancora una volta voi avete festeggiata nelle vostre case e nella vostra chiesa la nascita di Gesù Cristo. Ma interrogate la vostra coscienza: siete ben sicuri di meritare il nome di cristiani? siete ben sicuri di seguire i principii santi predicati da Cristo e pei quali egli morì?». Sono passati tanti anni da quell’accorato interrogativo, perfettamente socialista e cristiano ad un tempo. Erano gli anni della contrapposizione frontale tra il clericalismo ed i fautori del principio di laicità, esso stesso di origine cristiana. Da allora ad oggi, rispetto alla tradizione divisione tra “laici” e cristiani, non c’è stata in Italia nessuna significativa svolta nel modo di leggere la politica, quasi che nel nostro paese vi siano due categorie irriducibilmente contrapposte. Dimenticando che in Europa, ad esempio, le formazioni politiche socialiste, socialdemocratiche e laburiste sono partiti laici di credenti e non credenti. Probabilmente molto è dipeso dal fatto che lo strappo del principale partito della sinistra italiana dalla fede e dall’altra “chiesa”, quella comunista, è stato fin troppo tardivo, per quanto netto e doloroso, favorendo così una lettura come quella or ora descritta. Nella lunga e aspra contesa che per tutto il Novecento ha opposto comunisti e socialdemocratici nel Vecchio Continente, la storia ha dato ragione alle ragioni di questi ultimi, al loro riformismo, alla loro riuscita, anche se non ancora conclusa, riforma del capitalismo, attraverso il compromesso tra economia di mercato organizzata (ma non diretta dall’alto) e solidarietà sociale, attraverso il welfare come alternativa realistica ai disastri dell’economia pianificata. L’adesione all’Internazionale Socialista ed al Partito del Socialismo Europeo poteva rappresentare per gli ex comunisti italiani una via d’uscita non provinciale dalla contesa tra i reduci del Pci ed i socialisti italiani. Una contesa viziata, fin dalle origini, proprio dall’anomalia, anzi dalla situazione – unica in Europa – di schiacciante prevalenza della componente comunista su quella socialista. Un’anomalia che ne ha generato specularmente un’altra: quella rappresentata dall’unità politica dei cattolici nel partito della Democrazia Cristiana e dalla conseguente difficoltà di rapporto tra la sinistra e il vasto mondo cristiano italiano. L’esatto contrario di quanto capitava più o meno in tutto il resto d’Europa, con le solide radici religiose e cristiane del laburismo inglese e di molti socialismi nordici; oppure con la fusione francese ad Épinay tra sinistre socialiste, repubblicane, cristiane (Jacques Delors in testa); con la significativa presenza di leader cristiani – da Pasqual Maragall ad António Guterres – nei nuovi partiti socialisti delle rinate democrazie iberiche. La caduta del Muro ed il parallelo dissolversi dell’unità politica dei cattolici, nel contesto del nascente (pessimo) bipolarismo, avevano aperto all’Italia la concreta possibilità di dotarsi di un sistema politico, oltre che istituzionale, di stampo europeo. Occasione ormai sprecata in questi vent’anni di dimenticabile “Seconda Repubblica”. In tutto ciò, la perdurante tendenza a descrivere il paese secondo l’idea che da una parte vi sono i cristiani, nessuno dei quali laico, e dall’altra i laici, nessuno dei quali cristiano, ha determinato una sorta di bipolarismo nel bipolarismo, non meno deleterio di quello che aveva al centro Berlusconi e l’antiberlusconismo. Il combinato disposto di queste dure contrapposizioni ha rischiato di produrre, oltre a tante degenerazioni di cui già paghiamo il fio, una lacerazione tra le ragioni della modernità e quelle dell’uguaglianza e della solidarietà, tra la radicalità dei principi e l’equilibrio dei mezzi. In questo senso, la decisione della gerarchia cattolica romana di benedire la “salita” in politica di Mario Monti, rischia di essere controproducente, a cinquant’anni dall’apertura del Concilio Vaticano II ed a quasi venti dalla fine dell’unità politica dei cattolici italiani, per un centro politico – non più solo cattolico – che non voglia ridursi ad occupare una nicchia del mercato elettorale. Un segno niente affatto positivo da Oltretevere, che può essere rovesciato solo da una nuova, grande e forte, iniziativa per una nuova laicità in politica, un campo in cui il bene comune riguarda credenti e non credenti, essendo etimologicamente legato alla parola λαός (“laòs”, vale a dire popolo, comunità), da cui deriva “laico”. Questo è il compito che spetta ai socialisti per il 2013 e nella costruzione della “Terza Repubblica”: un compito per il quale il nostro impegno deve cominciare da subito e che investe soprattutto chi, come chi scrive, è socialista e cristiano come Prampolini. Buone feste da “Giovane Sinistra”.

ANTONIO MATASSO

Roma, parla il candidato socialista alle primarie Mattia Di Tommaso

Leggendo la tua biografia, si capisce che la politica ha sempre fatto parte della tua vita.
Ha rappresentato una palestra di vita molto significativa. Prima a scuola, poi all’università e oggi per la mia città, sono sempre stato animato dalla passione e dalla voglia di mettermi al servizio della comunità, perché la politica se è sana e mirata agli interessi collettivi era ed è una cosa bella.

Oltre la politica, c’è stato lo studio.
Continua ad essere parte della mia vita. Dopo la laurea in giurisprudenza, desideravo approfondire alcune tematiche e per questo ho frequentato prima il corso “Politiche dell’asilo nell’Unione Europea” e, successivamente, il master di II livello “Tutela internazionale dei diritti umani”. Nel frattempo sto completando la pratica legale in attesa di poter svolgere l’esame di stato per diventare avvocato.

Ti sei candidato alle primarie del centrosinistra di Roma. Perché?
Perché anche io che ne sono appassionato, ho cominciato a nutrire dubbi e rassegnazione nei confronti della situazione politica generale, fino ad arrivare al dubbio: che faccio? Lascio che la delusione prenda il sopravvenuto, concedendomi alcuni spazi di polemica magari tra pochi amici, oppure cerco di fare qualcosa in prima persona, mettendo al servizio della città la mia passione, la mia voglia di fare, e le mie idee? Ho scelto la seconda.

Come sta andando la raccolta firme?

Molto bene, in queste ore stiamo contando le firme raccolte nei gazebo e quelle presenti nei moduli che tante persone ci stanno riconsegnando in queste ore. Ho ragione di sostenere che la soglia di 4000 firme sia stata raggiunta, ma poiché il comitato promotore delle primarie di Roma ha deliberato di prolungare il termine per la presentazione in attesa ancora della fissazione delle date di svolgimento, abbiamo deciso di continuare anche sotto le feste, la raccolta firme, in modo di aumentare le occasioni di confronto ed ascolto con i cittadini.

È un obiettivo molto ambizioso. Cosa pensi di fare?

Il mio obiettivo è portare al centro del dibattito anche la questione giovanile, per anni proclamata ma mai affrontata.  Ri-dare voce e speranza ai tanti giovani talenti preparati e volenterosi di questa città. Poi, amando questa città, la mia ambizione è quella di trasformarla in un luogo accessibile, moderno, efficace, funzionante, dinamico.

La cosa più urgente di cui ha bisogno Roma.

Tornare ad essere una grande capitale europea, dove si vive e si lavora bene. Dove si riducano i tempi di spostamento, e gli uffici amministrativi diventino più efficaci e digitali. Dove si sviluppino i sentimenti dell’integrazione, della tolleranza e della solidarietà. Dove aumenti l’offerta artistica, culturale e giovanile. Dove chi governa è il primo che deve dare il buon esempio.

I  punti fermi del tuo programma?
Abbiamo definito le priorità, e il programma è ancora aperto al contributo e alle idee di ciascuno. Trasporti, casa, giovani, riforma della pubblica amministrazione, diritti per tutti sono i nostri punti fermi. Roma e i romani devono ripartire da qui. I primi interventi saranno: prolungare l’orario della metropolitana ed aumentare le corse dei bus; censire tutti gli appartamenti sfitti ed inutilizzati e assegnarli, secondo graduatoria, alle giovani coppie a canone agevolato;  consentire di richiedere on line certificati e altri documenti amministrativi (es. carte d’identità); registro delle unioni civili; aumentare e semplificare le modalità di partecipazione alla vita politica della città; riqualificare le periferie e facilitare l’avvio di nuove imprese giovanili.

Come si finanzia la tua campagna elettorale?
Per scelta ed esigenza è una campagna low badget. Intendiamo sfruttare al massimo i vantaggi delle risorse a costo zero. La mia grande ricchezza è rappresentata dal contributo volontario che mi stanno dando tantissime persone in questi giorni. Non li ringrazierò mai abbastanza. Al momento le uniche spese per la raccolta firme sono riuscito a coprirle personalmente. Quando inizierà la campagna elettorale, avrò, necessariamente, bisogno di fondi. Per questo lanceremo presto una raccolta delle donazioni, e ovviamente, ogni spesa sarà pubblica e trasparente.

In che modo ti si può aiutare nella tua battaglia politica?

Stiamo costituendo il comitato elettorale, interamente composto da giovani. Un bel gruppo dinamico ed affiatato, molti di loro alla prima esperienza politica. I modi per collaborare saranno tantissimi, e ad ognuno verrà chiesto di collaborare secondo le proprie esigenze e sfruttando le proprie capacità. A breve, sul mio sito www.mattiaditommaso.it si troveranno tutte le indicazioni. Ho bisogno di tutti, perché da solo non vado da nessuna parte.

Un saluto…

Seguitemi, criticate, suggerite, proponete, partecipate. Non perdete questa grande occasione di impegno civile e politico. Insieme, con le nostre idee e il nostro entusiasmo, trasformeremo Roma come non l’avete mai vista.

FRANCESCA PERILLI

Pd e profumo di sinistra: un’analisi dei limiti del centrosinistra

Conclusasi la tormentata fase della battaglia delle primarie, si apre una parentesi di riflessioni e di bilanci, quanto mai opportuni, considerati i toni elevati utilizzati nel confronto Renzi-Bersani. Ebbene, se proprio si voglia fare conteggi di vincitori e vinti, sembra proprio che tra i secondi debba annoverarsi quella che pure avrebbe dovuto essere la regina del ballo inscenato nella coreografia delle primarie, la tanto incensata idea di un programma di Sinistra. Sembra eretico affermare che proprio un’idea progressista sia risultata vittima di un confronto tra forze che a lei si richiamano. Eppure, analizzando le dichiarazioni dei contendenti nelle battute finali della lotta, sembra emergere ancora una volta il dramma storico dell’area di centro-sinistra, quel vizietto di farsi bella delle penne ideologiche progressiste per poi bruciarle sull’altare d’incoerenti alleanze partitiche. Che Matteo Renzi ed il suo staff di pseudo rottamatori siano propensi ad un uso quanto mai improprio delle idee di sinistra non può stupire, considerando la loro basilare estraneità al nucleo ideologico che a questo schieramento si richiama. Stupisce invece la banalizzazione fattane da un personaggio quale Bersani, la cui apertura, in passate legislature, ad istanze realmente vivificanti della nostra asfittica società avrebbe dovuto lasciar presagire una condotta immune da vili compromessi con Sel, come attestato dalle sconcertanti dichiarazioni su Israele rese nel confronto finale con Renzi, traditrici della sofferta opera di risanamento tra sinistra e mondo ebraico in corso nel Pd in questi ultimi anni. D’altronde, per un paradosso tipico del contesto politico italiano, proprio Nichi Vendola, in genere propenso a sfiancare il suo uditorio con infinite narrazioni, sembra questa volta aver individuato il punto dolente del dibattito, con il suo richiamare i candidati alla necessità di sentire profumo di sinistra nei programmi da approntare in vista delle prossime elezioni. Spogliate dei sottintesi politici vendoliani, questa dichiarazione mette difatti a nudo la tragica confusione ideologica in cui l’area opposta al centro- destra continua a dibattersi da vent’anni a questa parte, incapace com’è di chiarire la propria natura e, conseguentemente, di formulare una consequenziale piattaforma programmatica. Sebbene messa a tacere, per evidenti ragioni di opportunità politica, l’indeterminatezza ideologica del Pd è una tara originaria che ne ha ostacolato sin dalla genesi le capacità di azione e reazione politica, obbligandolo ad un’opera di appiattimento nei confronti degli avversari risultata quanto mai dannosa in termini di governance e di consenso. Infatti, sebbene diversi commentatori abbiano preferito sorvolare sulla questione, concentrandosi sulle indubbie capacità mediatiche espresse da Silvio Berlusconi nel corso della propria carriera politica, è indubbio che un ruolo determinante nei trionfi conosciuti dal centro destra italiano nella cosiddetta Seconda Repubblica sia stato giocato dal rifiuto del polo avversario di proporre un’ alternativa che fosse percepibile come di sinistra. Le ragioni di quest’ostinazione, apparentemente suicida, non sono tuttavia irrazionali come pure potrebbero apparire a prima battuta, specie se si considerino i disastrosi risultati cui hanno condotto, bensì trovano una razionale giustificazione nel naufragio ideologico conosciuto dalla partitocrazia italiana dopo Tangentopoli. L’universo politico della Prima Repubblica, senza ricercare soluzioni dualistiche di sorta, ancorava infatti la propria stabilità all’esistenza di tre grandi partiti capaci d’esprimere con sufficiente chiarezza determinate piattaforme ideologiche. In questo panorama, il voto moderato di matrice cattolica affluiva nella DC, quello legato alle correnti comuniste nel PCI, mentre le istanze socialdemocratiche venivano ad essere rappresentate nel PSI. I vantaggi di una simile ripartizione della rappresentazione politica erano evidenti. Sebbene il mutare delle esigenze sociali ed economiche avessero indotto nel corso del tempo queste formazioni a rivedere, spesso in modo radicale, le proprie linee d’azione, l’elettore rimaneva sicuro di ricollegare il proprio voto ad una formazione capace di esprimere una determinata visione del reale. Tale certezza è andata completamente distrutta a seguito del tracollo di Tangentopoli, segnando uno spartiacque nel legame tra elettori e partiti ed ingenerando un meticciato politico che ha finito per allontanare sempre più i primi dai secondi. Tuttavia, mentre il centro-destra è riuscito a ricompattarsi in tempi straordinariamente brevi intorno al progetto della rivoluzione liberale lanciato da Berlusconi, l’area di sinistra s’è incamminata su un sentiero diametralmente opposto, finendo per smarrire completamente la propria identità. Infinite sono state le ragioni invocate per spiegare un simile tracollo, ma quella più convincente sembra risiedere nell’assurdo connubio tra le forze progressiste ed i cosiddetti cattocomunisti. Si è trattato di un matrimonio celebrato per ragioni di opportunità politica, ma destinato ad essere infecondo sul nascere, per la radicale incompatibilità di vedute tra tradizioni sostanzialmente estranee tra loro. Lo testimonia la feroce opposizione dimostrata dalle aree moderate del Pd su questioni, quali quelle dei diritti civili o della bioetica, che pure si presumono essere patrimonio dell’area di sinistra. Trattasi d’incoerenze che, oltre che riprovevoli sul piano politico, sono risultate poco credibili anche sul fronte elettorale, che non a caso ha spesso premiato l’agenda berlusconiana, istintivamente avvertita come non contraddittoria. La stessa vicenda delle primarie ha finito per dimostrare il paradosso del Pd, costretto ad assistere all’affermazione di un personaggio, quale Matteo Renzi, che ha fatto del disprezzo verso la sinistra uno dei suoi cavalli di battaglia. Viene però da chiedersi se simili commistioni possano trovare buona accoglienza in un corpo elettorale segnato dalla crisi economica e dalla frustrazione sociale. E sotto tale profilo il messaggio vendoliano risalta in tutta la sua concretezza. Impegnati nelle loro beghe elettorali, gli apparati sembrano aver dimenticato che, nei momenti d’incertezza, l’elettore esige chiarezza di contenuti e di visioni. Ne consegue che l’ennesimo inciucio con le forze centriste, cui Bersani sembra voler ammiccare, non agevolerà l’affermazione di una linea progressista, pure auspicata da moltissimi italiani. Nè migliori rassicurazioni sembra offrire l’alternativa di un’alleanza con una sinistra, quale quella vendoliana, incapace di superare la sua storica dipendenza da una visione marxista del reale, ormai anacronistica. In definitiva, l’arena del centrosinistra appare oggi un foglio sostanzialmente bianco, su cui nuove storie possono esser scritte. Ed è allora compito delle forze socialdemocratiche esprimere alternative a narrazioni già viste, proponendo una visione progressista che ripudi l’accomodamento con il conservatorismo cattolico, senza cedere al fanatismo ideologico delle aree no global e comuniste. E’ una sfida difficoltosa, che quasi certamente impiegherà anni a produrre i suoi frutti, ma che non per questo dev’esser tralasciata, non foss’altro che per dimostrare all’Italia che esiste un aroma di sinistra diverso dalla gradazione comunista.

GIUSEPPE GIGLIOTTI

Palestina e Onu. Una strada per la pace

Tra le date che questo anno in via di conclusione consegna alla storia c’è, senza dubbio, quella del 29 novembre, giorno in cui, dopo un’attesa lunga, difficile, sofferta, l’Autorità nazionale palestinese (Anp) entra a far parte della Comunità delle Nazioni Unite, seppur con lo status di osservatore non membro dell’ONU.Considerazioni di carattere giuridico ci portano a sottolineare la valenza di soft law della risoluzione approvata dall’Assemblea generale, in quanto attribuisce all’Anp solo una condizione di “quasi membro” delle Nazioni Unite, senza le prerogative riconosciute ai 193 componenti a pieno titolo. È altrettanto evidente che solo il Consiglio di sicurezza avrà il potere di fare un passo ulteriore verso la piena legittimazione giuridica dell’Anp, come richiesto dai palestinesi il 23 settembre del 2011, e questa eventualità non sembra praticabile alla luce dell’attuale stallo diplomatico per la risoluzione del secolare conflitto con Israele.Tuttavia, il voto dell’Assemblea generale riveste un profondo significato simbolico e politico, perché fissa un punto fermo da cui non si potrà più retrocedere, potendo porre le premesse per un futuro – non sappiamo quanto distante nel tempo – ingresso della Palestina nella Comunità internazionale degli Stati sovrani.E tutto ciò avviene proprio in una fase di recrudescenza della situazione a Gaza, dove l’aggressività terroristica di Hamas ha prodotto la cruenta reazione di Tel Aviv, che solo l’abile mediazione del neo Presidente egiziano, Mohamed Morsi con il sostegno del Segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, ha attenuato, favorendo le condizioni per un “cessate il fuoco”.Alla luce di un simile quadro, qual è il vero significato da attribuire al voto Onu sulla Palestina? Quali conseguenze potrà comportare nel processo di pace con Israele? E soprattutto, chi ha vinto e chi ha perso dopo questo voto?Sono domande che assillano non solo le diplomazie, ma anche l’opinione pubblica mondiale, perché l’esito del conflitto per la “terra promessa” produce ricadute a cascata sull’intero quadrante mediorientale e sulla vasta area del Mediterraneo.Le prime reazioni del governo israeliano sono state di netta contrarietà al voto dell’Assemblea generale, nella preoccupazione che questo parziale riconoscimento della Palestina possa rafforzare l’estremismo di Hamas e indebolire la posizione di Israele. Viceversa, nei territori palestinesi si è assistito a manifestazioni di giubilo, nonché a rassicuranti dichiarazioni dei vertici dell’Anp sui propositi futuri.Ad uno sguardo sommario, l’intera vicenda può apparire, dunque, come un successo di una parte sull’altra, ma se si tenta di seguire un approccio più approfondito ed obiettivo non si può negare come dal 29 novembre siano più forti entrambe, e lo sia anche l’Onu.La Palestina, per opera del Presidente Abu Mazen, vede una luce verso la piena legittimazione come organizzazione statuale; Israele, pur nella contrarietà della scelta seguita dalla maggioranza dei membri Onu, potrà contare su un interlocutore più solido perché considerato tale dalla Comunità internazionale. Al Fatah si conferma l’unica forza politica capace di guidare il processo di pace verso una stabile meta, fiaccando, auspicabilmente, le capacità di consenso di Hamas presso il popolo palestinese. Tel Aviv continuerà a godere del sostegno dei suoi storici alleati (su tutti, gli USA) ma anche dei Paesi (tra cui l’Italia) che hanno votato si alla risoluzione. Infine, l’Onu, che torna, seppur tra mille debolezze e limiti, centrale nella scena politica internazionale, come sede del confronto e della sintesi delle controversie, secondo l’auspicio dei suoi fondatori.Resta l’incognita dell’atteggiamento che potrà assumere l’integralismo islamico, indebolito dal nuovo scenario ma nondimeno animato da propositi bellicosi e terroristici nei confronti di Israele.Nonostante questo dubbio, però, si può ritenere che il voto dell’Assemblea generale abbia creato una strada su cui costruire il processo di pace, una pace che si basi sul reciproco riconoscimento tra due popoli e tra due Stati, sotto l’egida, finalmente, della principale organizzazione internazionale deputata a tale fine.

VINCENZO IACOVISSI

Politica estera del governo Monti: un bilancio negativo

L’iperattivismo estero di Mario Monti e del suo governo tecnico ha riguardato esclusivamente la ricerca di sponde commerciali e le rassicurazioni circa la stabilità finanziaria del Paese. Sono stati trascurati molti altri aspetti della politica estera, da quello strategico-militare, alla mission, al rapporto con l’UE, fino all’influenza in determinate aree. L’ampio tour europeo, atlantico e asiatico di Monti era teso solamente a recuperare la credibilità internazionale del Paese, precipitata col triste declino del Cavaliere. I rapporti da recuperare non sono soltanto gli equilibri istituzionali coi paesi del G8 o con i BRICS, ma si tratta delle posizioni di forza ed egemonia conquistate nel corso di sessant’anni, con più o meno audaci politiche di alleanze e pressioni. Ma vediamo la situazione in cui si è insediato l’esecutivo del Professore e le scelte (non) fatte. Purtroppo la politica estera del governo Monti assomiglia sempre più alla politica estera di un paese debole, senza radicamento storico e politico a livello globale, paesi di secondo piano che rinunciano ad un ruolo internazionale. L’Italia soffriva da ormai qualche anno di un logorante isolamento politico dovuto all’imprevedibilità del premier Berlusconi ed alle sue frequenti gaffe. Nonostante ciò, vanno riconosciuti alcuni suoi risultati, come il rapporto privilegiato con la Libia del colonnello Gheddafi. Prima della guerra, la produzione italiana in Libia era in media di 280.000 barili al giorno. A quel tempo, la Libia produceva un totale di 1,6 milioni di barili al giorno, di cui 1,3 per l’export. Al World Petroleum Congress di Doha ai primi di dicembre 2011, il gruppo petrolifero ENI, che è anche il più grande produttore straniero di petrolio in Libia, annunciò che la sua produzione di greggio in quel paese era stata ripristinata a circa il 70% dei livelli pre-guerra. Per quanto concerne l’export, nel 2009 l’Italia era il primo paese fornitore della Libia gheddafiana con una quota del 17,4% delle importazioni libiche totali, prima di Cina (10%) Turchia e Germania (9%). Era anche il principale mercato di sbocco per le esportazioni libiche (20%). Prima della guerra civile si contava la presenza di un centinaio di imprese italiane, prevalentemente nel settore petrolifero e delle infrastrutture, oltre che nella meccanica. L’instabilità politica italiana ha contribuito a facilitare l’insediamento di imprese concorrenti francesi e angloamericane nel momento in cui abbiamo ‘mollato il volante’. La situazione a Tripoli resta complessa ma certamente l’Italia ha perso la golden share nel nuovo fragile stato libico. Per Mario Monti la scelta degli Esteri è ricaduta su Giulio Terzi di Sant’Agata, ma è stato un testa a testa sino all’ultimo con un altro funzionario, Giampiero Massolo. Ex Segretario generale della Farnesina, Massolo godeva di un apprezzamento bipartisan, fama di instancabile e preciso diplomatico, conoscenza di inglese, francese, russo, polacco e tedesco. Ma non se l’è sentita di fare il grande salto, ha chiesto troppe rassicurazioni sul proprio futuro. Dunque alla Farnesina c’è andato – con il sostegno di Casini e Fini – il nobile bergamasco Terzi, incarnazione dell’atlantismo ortodosso. Ha lavorato per 35 anni tra le ambasciate italiane di Parigi, Canada, Israele, Nato, Onu e Washington. Come ringraziamento per il disturbo, Massolo è stato nominato direttore del DIS (controllo servizi segreti). Non sappiamo se avrebbe fatto meglio di Terzi, ma sappiamo che diplomazia e politica estera sono cose diverse. Gli esempi di una gestione maldestra sono svariati. Nessuna evoluzione nell’estradizione di Cesare Battisti, ben più di un caso di diritto internazionale. Si sono scontrate l’influenza di Roma sul capofila dei BRICS, con la sua vasta comunità italiana, e le resistenze del Brasile che, con una sentenza ispirata politicamente da Lula e Rousseff, ha voluto cementare la sua egemonia nel continente latino-americano e la nuova veste di potenza emergente. Altro episodio emblematico è il rapimento del tecnico Franco Lamolinara assieme ad un collega inglese, avvenuto in Nigeria a marzo. Il governo di Londra autorizzò un blitz delle forze speciali britanniche che si concluse con la morte del sequestrato italiano. Roma fu informata attraverso i suoi servizi solo a cose fatte. Caso diverso, ma altamente simbolico, è quello della cittadinanza onoraria al Dalai Lama del Comune di Milano. Sembra che il console cinese abbia espresso il disappunto di Pechino alla Farnesina, che avrebbe avvertito il Comune di un possibile boicottaggio cinese all’Expo 2015. Anche in questa occasione il governo è stato succube, offrendo un segnale preoccupante sull’indipendenza delle istituzioni e sulla loro autorevolezza. Ma forse l’episodio più celebre è quello dei due marò a bordo della nave italiana Enrica Lexie, accusati dal governo indiano del Kerala di aver ucciso ingiustamente due pescatori, scambiati per pirati. Viene da chiedersi: Stati Uniti, Francia o Regno Unito avrebbero consentito per mesi la detenzione illegale dei propri militari ed un trattamento così umiliante? La risposta è no, un caso analogo ha coinvolto la Marina degli Stati Uniti, che si è ben guardata dal consegnare i propri marines all’India o agli Emirati Arabi. L’Italia langue ancora impotente fra ricorsi, avvocati e funzionari del ministero. Nelle relazioni internazionali spesso vale la regola del più forte e non il diritto. Nessuna idea sulla strategia mediterranea, fortemente sostenuta da Craxi negli anni ‘80 e recentemente lasciata alle vaghe fantasie di Sarkozy, proprio in una fase di profondi cambiamenti nel Maghreb. Nel 2013 la Croazia entrerà nell’Unione Europea, ma il governo ha azzerato i fondi per la comunità italiana dell’Istria e Dalmazia, unica minoranza autoctona al di fuori dei confini nazionali, e Monti ha dedicato una visita ad hoc a Belgrado (proprio durante la crisi nigeriana); la nuova Serbia di Nikolić, ex braccio destro del criminale di guerra Šešelj, eletta come partner privilegiato nei Balcani. In Europa si sperimentano alleanze, dal Triangolo di Weimar al Gruppo di Visegrád, dall’Unione per il Mediterraneo a quella Eurasiatica, si attivano patti intermittenti e si vivono rotture burrascose, ma l’Italia stenta a trovare un suo ruolo, non ha una vision, resta all’angolo. Nei casi citati si è lasciata umiliare da paesi emergenti, fino a qualche anno fa privi di qualsiasi potere contrattuale con un membro del G8. Non vuole essere un inno alla prepotenza occidentale od una nostalgia patriottarda del posto al sole, ma i sintomi di declino nello scacchiere internazionale sono evidenti. Il governo, in quanto tecnico, non se la sente di esprimere una linea ed ha scambiato la politica estera per diplomazia tout-court, relazioni di buon vicinato. Parte della responsabilità ricade anche sull’Unione Europea in crisi, che dovrebbe ispirare una politica estera comune nelle mani dell’Alto Rappresentante Ashton. Gli stati nazionali con i loro piccoli interessi non sono più in grado di rispondere singolarmente alle sfide globali. Se si tirano le somme della politica estera italiana in tempi tecnici, il bilancio è certamente negativo.

MATTEO PUGLIESE

Likud Beitenu: la nuova maggioranza di Bibi

Il 22 Gennaio gli Israeliani sceglieranno il loro prossimo Premier. Le elezioni anticipate sono state indette da Netanyahu ad Ottobre per assicurarsi una maggioranza schiacciante, così da poter approvare la legge sul bilancio da austerity, che per Costituzione dovrà essere approvata entro la fine del 2013 e sulla quale la composizione attuale della Knesset non trovava l’accordo.Con l’obiettivo si stravincere le prossime elezioni, Netanyahu e Lieberman, Ministro degli esteri, hanno fuso i propri partiti, dando vita a Likud Beitenu – letteralmente: la Likud è la nostra casa – che prende il nome dallo schieramento di destra Likud, di cui Netanyahu è leader, e da Israeli Beitenu, il partito guidato da Avigdor Lieberman. La fusione è particolare: innanzitutto non si tratta della fusione tra i due partiti, ma solo di una fusione delle liste elettorali, ma soprattutto è stata imposta dalle rispettive dirigenze nazionali senza affatto consultare le proprie basi. Proprio quest’aspetto aveva destato qualche speranza nei Laburisti guidati da Shelly Yachimovich, che si aspettavano che il consenso verso Likud Beitenu fosse inferiore alla somma del consenso per la Likud e Israeli Beitenu ante fusione. Ma non è affatto così: Likud Beitenu, che candida Bibi nuovamente Premier, continua anzi a salire nei sondaggi, lasciando pochissimo spazio ai Laburisti per svolgere un’opposizione efficace.”Bibi”, come viene soprannominato Netanyahu, è sempre stato considerato molto rassicurante da parte dei suoi elettori, che in questo momento hanno bisogno di sentirsi salvaguardati. Per capire il motivo dell’ascesa continua di Likud Beitenu e del successo di Netanyahu bisogna guardare soprattutto alla politica estera: nuovi scenari si stanno aprendo in questi mesi e sono prospettive che giustamente spaventano gli Israeliani.In primis l’elezione di Obama, rispetto a Romney, rappresenta una minaccia per Israele a causa della maggiore intransigenza del repubblicano verso la Palestina. Infatti, l’attacco sferzato contro Gaza che ha ucciso Jaabari – leader di Hamas e comandante di 20.000 uomini armati – il 14 Novembre va interpretato anche come segnale a Obama: un avvertimento contro il riconoscimento della Palestina quale Stato osservatore all’ONU, che da quando è stata ammessa all’UNESCO comincia a diventare un’ipotesi meno remota. Obama, infatti, proprio negli stessi giorni dell’attacco, aveva reso note le intenzioni di avviare una nuova mediazione per risolvere la questione arabo-israeliana, ma con l’ira di Hamas e dei suoi militanti scatenata dall’attacco del 14 Novembre la pace si allontana inevitabilmente. D’altronde Netanyahu non si è mai fatto riconoscere quale portatore di pace, ma ha sempre rimandato al mittente le proposte di negoziato palestinesi, senza lasciare molto spazio alla risoluzione pacifica del conflitto latente, ora riemerso dopo quattro anni di semi-tregua e che sfocerà probabilmente anche in un conflitto sul confine con il Libano, dove Hezbollah è già pronta a fornire sostegno militare ad Hamas.In secondo luogo, Israele nutre molto timore per la guerra civile in Siria: al rischio di trovarsi a che fare con un regime forse più democratico, ma sicuramente più islamista e dalle ignote posizioni in politica estera, non c’è nessun dubbio che l’opzione migliore per Israele sia non interferire con il regime di Assad. E questo è anche uno dei motivi fondamentali per cui la NATO non interviene in favore degli Insorti in Siria.Inoltre, i rapporti con l’Egitto si stanno facendo sempre più tesi. Mohammed Morsi ha fatto rientrare il proprio ambasciatore in Israele e lo stesso ha fatto Netanyahu con l’ambasciatore israeliano in Egitto.La situazione che va delineandosi in Medio Oriente spaventa il mondo intero e scatena nuove ondate di rabbia e vendetta da parte israeliana, ma spianano la strada alla rielezione di Netanyahu. La nuova maggioranza di Governo, con questa situazione ai confini, probabilmente non sarà d’aiuto a Bibi solo per approvare le misure di austerity, ma anche per giustificare probabili nuovi attacchi verso Hamas.

ELISA GAMBARDELLA