Editoriale: I giovani socialisti, l’identità e le primarie

Sono fermamente convinto che le primarie del nuovo centro-sinistra non saranno un avvenimento senza incidenza nei prossimi dieci anni della vita politica italiana. Penso di poterlo affermare con la certezza di non essere smentito dai fatti, perché la preparazione di questo appuntamento, sebbene già sperimentata nel recente passato, stavolta impone delle riflessioni più approfondite, in considerazione delle circostanze esterne ed interne in cui tutto si svolge.
È abbastanza ragionevole che la qualità più importante di queste riflessioni riconduca alla questione delle alleanze e, in ultima analisi, della collocazione strategica di una sinistra che si candidi stabilmente a governare un paese con le caratteristiche geo-politiche e geo-economiche che ha l’Italia. Il confronto, che si profila piuttosto netto, fra le posizioni che trovano in Matteo Renzi il punto di riferimento e di coagulo, e quelle dell’apparato a sostegno di Pier Luigi Bersani, è soltanto apparentemente nominalistico.
C’è una parte del Pd che si pone, pur con ambiguità, contraddizioni e qualche antico pregiudizio, il problema di trasformare la “sinistra istituzionale” confluita nel Pd dall’esperienza post-comunista in una compiuta sinistra riformista di governo, seppur all’interno di un partito che non si richiama più, almeno nella sua interezza, alla sinistra storicamente intesa. Dall’altro lato, c’è chi teorizza il partito liquido della “rottamazione”, ibrido, disinvolto e sostanzialmente disancorato da qualsivoglia questione di identità politica.
In tutto ciò, l’Italia in questi ultimi tempi è tornata ad essere un paese di frontiera: non più nel bipolarismo americano-sovietico, ma nelle nuove dimensioni bipolari tra le democrazie compiute della sponda Nord del Mediterraneo e quelle incompiute di alcuni paesi della riva meridionale, tra economie in crisi ma ancora in piedi (come la nostra) e sistemi spacciati come la Grecia o il Portogallo. Che questo nuovo bipolarismo sia percepito come lontano dalla vita di tutti i giorni, specialmente da Roma in su, non vuol dire che esso non pesi in modo significativo nei comportamenti politici dei protagonisti nella scena mondiale e, di conseguenza, nelle realtà nazionali. Lo schematismo della contrapposizione e la rinnovata enfasi dell’appartenenza, saranno dominanti nei prossimi mesi, nel linguaggio della politica e nella descrizione dei processi di assestamento in atto nella vecchia Europa e nel Mediterraneo. Qualcuno, specialmente nel mondo dell’antagonismo, sembra ben lieto di un possibile imbarbarimento della politica, come ci dimostra il risultato dei partiti estremisti in Grecia. Le contrapposizioni agevolano sì l’identità, ma senza porre i problemi di spessore strategico e di concretezza, che accompagnano la costruzione di un soggetto politico forte.
In questo contesto, la scelta di chiedere agli elettori del centro-sinistra di partecipare alle primarie, senza porre prima il problema del percorso da realizzare, è una vecchia abitudine. Da Bersani ci si aspetta che chiarisca cosa ha da dire la sinistra delle istituzioni interna al Pd che vuol diventare sinistra riformista di governo. Questo problema passa, ancora una volta, per il rapporto con il Partito del Socialismo Europeo e con l’Internazionale Socialista. Come giovani socialisti, dobbiamo assumerci la responsabilità di dire che non è possibile aggregarsi ad alcuno dei due carri del Pd che si profilano in vista delle primarie. Occorre una posizione autonoma e ragionevolmente identitaria dell’area laica-socialista: questa volta il compromesso non serve a nessuno.

ANTONIO MATASSO

Un futuro incerto per la Primavera araba

L’Occidente, che apprezzava il modello di stabilità autoritaria nel Maghreb, ora teme una deriva islamista della Primavera araba. La Francia non disapprovava il sistema carcerario tunisino e alla minima critica, Ben Ali minacciava il blocco dei capitali francesi investiti in Tunisia e l’abolizione del francese come materia d’insegnamento. L’orientamento dei nuovi governi è controverso e sfaccettato. Ha suscitato scalpore la controtendenza libica con la vittoria dei ‘liberali’ e secolari, ma la coalizione di Jibril non è liberale nell’accezione occidentale del termine. Nel mondo arabo il termine ‘almany’ (laico, secolare) significa società in cui la religione occupa uno spazio marginale nella vita pubblica e pochi partiti si definirebbero in questo modo. In Tunisia sotto Bourguiba il laicismo fu un’imposizione. Nei regimi nasseriani e baathisti quello religioso era l’unico luogo pubblico di riunione, perciò visto con sospetto dal potere. Fa eccezione la Tunisia, grazie ad una borghesia formatasi a Parigi e all’Union Generale Tunisienne du Travail, potente sindacato. Nonostante ciò, in Egitto e Tunisia hanno preso il potere le filiali di un’organizzazione internazionale, i Fratelli Musulmani. Detti Ikhwan, puntano alla creazione di un’entità panislamica sul modello ottomano, ma nei fatti c’è poco coordinamento e ogni sezione nazionale ha le sue priorità. A Tunisi governa Ennahda, partito conservatore espressione della Fratellanza, ormai nei gangli statali. Spesso persone si presentano a nome di Ennahda e pretendono assunzioni o favori da imprese pubbliche. Il partito è diviso tra la corrente dei conservatori, che corteggia i salafiti, e i ‘modernisti’. Al governo ci sono anche due partiti di centrosinistra, il Congresso per la repubblica del Presidente Moncef Marzouki ed Ettakatol del presidente dell’assemblea Ben Jafar. Ma il vero padrone del paese è il presidente di Ennahda, il 71enne Rashid Gannushi, personaggio controverso tornato da Londra dopo vent’anni d’esilio. Da un lato il 26 marzo ha escluso l’inserimento di principi sharitici nella nuova costituzione e ha ribadito che il Codice dello Statuto personale, conquista civile introdotta da Bourguiba, non sarà modificato. Dall’altro ha parlato di ‘estremisti laici e religiosi’ accostando Bourguiba “che pensava di rappresentare tutti i tunisini” ad Al Zawahiri, capo di Al Qaeda, “che pensava di imporre uno stile di vita a tutti”. Quanto ai salafiti, ha aggiunto: “Non giudichiamo le persone per le loro opinioni, chi porta una barba non è necessariamente un salafita. Anche Karl Marx aveva la barba”. Inoltre Ennahda sta cercando un modo per legalizzare Hizb ut Tahrir – un movimento internazionale che vuole creare un califfato panislamico governato dalla svaria – senza contravvenire alla legge tunisina che vieta i partiti religiosi non repubblicani. I dirigenti di Ennahda sostengono che la clandestinità servirebbe solo a rafforzare questi movimenti radicali, ma a metà giugno non hanno condannato un fatto grave. I salafiti, penetrati di notte nel palazzo El Abdellia a La Marsa, vicino Tunisi, dov’era allestita la mostra della Primavera delle arti, hanno distrutto una decina di tele considerate blasfeme. L’integralismo tange anche il rapporto tra donna musulmana, protagonista della Primavera, e diritti. Sebbene in Tunisia viga il codice di statuto personale, la donna ha diritto alla metà di quanto eredita un uomo. Sana Ben Achour, nota femminista, vuole totale parità e si è battuta con successo affinché la legge elettorale prevedesse liste al 50% femminili. Ma Sumaya Gannushi, figlia di Rashid, utilizza i social network per campagne di odio e messaggi aggressivi contro le donne che vestono o vivono all’occidentale. Alla facoltà di Lettere e arti di Manouba, una studentessa si è rifiutata di togliere il velo integrale per sostenere un esame, così l’università ha vietato il niqab e i salafiti, esterni all’ateneo, hanno reagito sequestrando il rettore. Anche questa volta Ennahda ha nicchiato. Il futuro della Tunisia, dell’Egitto, della Libia e del mondo arabo è incerto e complesso. Parlare genericamente di deriva integralista è superficiale, lo scenario è mutevole ed ogni paese costruirà la sua identità secondo numerose incognite.

MATTEO PUGLIESE

Università: piccolo è bello, se con stile

Dall’ascesa al governo dei tecnici targati Luiss e Bocconi le frequenti voci che si levavano dai grandi quotidiani confindustriali per sostenere una drastica riforma in senso liberale dell’Università hanno acquisito tutta l’autorevolezza che viene dall’essere parte dell’Esecutivo: Giavazzi può ora tuonare contro lo spreco pubblico di soldi nel sistema universitario con l’incarico di consulente per la Spending Review, anziché essere solo un “misero” editorialista del Corrierone nazionale. Tuttavia, ciò non rende più credibili e meno in malafede molte loro prese di posizione, non ultima la frequente querelle sulle nostre troppe e troppo piccole università. Si tratta di un tema su cui, da Socialisti, non abbiamo complessi di inferiorità: la FGS ha da tempo denunciato le “bad practices” consistenti nel moltiplicare ad libitum corsi e sedi di laurea pur di dare uno sbocco a docenti che altrimenti rimarrebbero nella scia di qualche intoccabile barone. I rimedi che vengono però riproposti ciclicamente, ultimo nella lista dal rettore dello IULM, rischiano però di essere molto peggiori del male: il tipico refrain, che vi suonerà familiare perchè viene riproposto per qualunque problema italiano dalla Scuola alle imprese, è che tutto è troppo piccolo, e quindi è poco produttivo, sprecone e non attira finanziamenti esteri o privati. Quindi bisogna chiudere tutto quello che si può, e passare a Atenei (o imprese, o scuole, o quello che vi pare) più grandi e meglio finanziati. Ci potrebbero essere credenziali scientifiche per questa posizione, anche se recenti studi sulla natura del nostro sistema di piccole e medie imprese sembrano confermare l’impressione che anche il “piccolo” può innovare, specialmente se il “grande” è abituato a vivere di mazzette di Stato. Però che a dirci queste cose siano immancabilmente professori provenienti da costosi atenei esteri o privati, che fanno della selettività la loro bandiera, suscita qualche legittimo dubbio. Ritenete veramente credibile che un’università con 3000 studenti riesca a organizzarsi meglio di un mostro burocratico come l’Università di Roma – La Sapienza ? Ritenete veramente che docenti precari e ricercatori a rischio costante abbiano più possibilità di emergere in Atenei smisurati dove il numero degli studenti obbliga a spendere cifre enormi non in didattica, ma in personale amministrativo ? Sopratutto, ritenete credibile che il livello della didattica si alzi quando si viene costretti a fare lezione in piccoli anfiteatri, anziché in classi di 10, 20, 30, 40 persone ? Si tratta di evidenze talmente intuitive che i nostri non provano nemmeno a argomentargli contro: infatti, a ogni loro richiesta di sfrondare le sedi inutili si accompagna immancabilmente, a fianco della legittima richiesta di valutare i risultati degli Atenei, quella di liberalizzare le rette. A quel punto, la selezione d’entrata sarà assicurata dal conto in banca, e in bocca al lupo se sperate che La Sapienza o l’Unibo diventino Harvard e concedano borse di studio ai due terzi dei loro studenti. Ci viene spesso ripetuto che le nostre tasse sono tra le più basse in assoluto: questo è vero se consideriamo le salatissime rette anglosassoni, retaggio di un sistema universitario che prepara le elitès in una società fortemente dinamica ma anche fortemente classista, ma è clamorosamente falso se consideriamo il continente europeo, dove l’Università viene vissuta come veicolo di elevazione sociale di massa anche grazie all’eredità delle lotte del movimento operaio e socialdemocratico. E allora, cari Giavazzi e Alesina e Puglisi, perdonateci, saremo matti e spreconi, ma se a Parigi con una popolazione equivalente a quella di Roma ci sono ben sette sedi universitarie forse non ci serve accorpare ogni ateneo sotto i 10.000 studenti o giù di lì. Tanto più che, a norma di una legge emanata e poi subito dimenticata, sarebbe illegale avere sedi con più di 40.000 studenti. La verità è che, con tutte loro storture, i piccoli Atenei di questo paese rappresentano uno dei tanti aspetti di un sistema sociale ancora irrimediabilmente incapace di creare un vero Welfare State: così come il primo ammortizzatore sociale dell’Italia è la famiglia, anziché il reddito minimo garantito o il salario minimo orario, la prima borsa di studio a disposizione dei nostri ragazzi è diventata l’ateneo sotto casa. Iniziamo a lavorare a un piano di assegnazioni di patrimonio immobiliare pubblico alle sedi universitarie, per realizzare aule più umane e collegi per i fuorisede. Iniziamo a incentivare i nostri atenei a sviluppare col privato una partnership onesta, con fondazioni di supporto come quella creata dall’Unibo con l’Unicredit o con spin-off che colleghino le attività dell’ateneo col mercato. Iniziamo a razionalizzare l’offerta di corsi e di sedi, creando dei coordinamenti regionali tra Atenei afferenti a una stessa zona geografica per migliorare l’offerta e l’organizzazione. Ma per favore, non veniteci a dire che è nel nostro interesse vedere il professore col cannocchiale e ascoltarlo mentre parla col megafono. E se magari vi preoccupate di come finanziare l’istruzione universitaria e riattivare il merito e il dinamismo sociale, potremmo anche riflettere su una cosina chiamata “tassa di successione sui grandi patrimoni”. Pensateci, tra un paper sulla “austerità espansiva” e l’altro.

MANFREDI MANGANO

La sinistra italiana e il morbo di Dorian Gray

Chi avrebbe, in Italia, il coraggio di mettere come leader di un partito politico un giovane e rampante dirigente classe 1970? Saremo mica diventati matti? Non scherziamo. D’Alema (classe 1949) impallidirebbe all’istante. Veltroni sfoggerebbe immediatamente qualche suo americanismo “what a fuck!”. A Prodi (classe 1939) prenderebbe un infarto. Piero Fassino (classe 1949), preso dal nervosismo, inizierebbe a mangiare e a mettere su chili. Rosy Bindi (classe 1951), farebbe un calendario sexy e Bersani (coetaneo della Bindi), inizierebbe ad uscire tutte le sere con Berlusconi. Suvvia, non facciamo gli spiritosi con queste battute. Vogliamo fare mica la fine delle sinistre europee?
In Belgio il leader del maggior partito di sinistra fiammingo, il Partito Socialista, Caroline Gennez, è una sbarbatella del 1975. Per non parlare della Finlandia, dove il leader del Partito Socialdemocratico (che rappresenta la sinistra), Jutta Urpilainen, è del ‘75 come la compagna belga. A Malta Joseph Muscat è a capo del partito laburista, ed è nato nel 1974. In Repubblica Ceca Bohuslav Sobotka è del ‘71 e guida il Partito Socialdemocratico ceco. Giusto “ciechi” dovrebbero essere quelli della sinistra per far governare un bambino! E perché, in Olanda? Il leader del Partito Laburista, Diederik Samsom, è anche lui del ‘71. Roba da pazzi.
E come se non bastasse ci sono quelli della classe 1960: Sergej Stanišev, nato nel 1966, comanda il Partito Socialista bulgaro. Che disonore per gli altri della sinistra balcanica!
In Albania Edi Rama è il leader del Partito Socialista, ed è nato nel 1964. Del 1966 è anche Helle Thorning-Schmidt, segretario dei socialdemocratici danesi. In Inghilterra Ed Miliband è a capo dei laburisti e non ha neanche la barba. È del 1969! In Slovacchia Robert Fico del 1964 guida lo Smer, maggior partito della sinistra slovacca. Borut Pahor, classe ‘63 è il segretario dei socialdemocratici sloveni. E pensare che i più “anziani” di tutti sono nati tra il 1960 e il 1962, e sono i leader dei partiti socialisti e socialdemocratici ungherese, austriaco, portghese e svedese, rispettivamente Ferenc Gyurcsány, Alfred Gusenbauer, António José Seguro e Håkan Juholt. Potrebbero essere nostri figli!
Pensate se ciò accadesse in Italia! I giovani inizierebbero ad interessarsi alla politica a quindici anni. Magari a diciotto entrerebbero già in un partito e, non sia mai, a venticinque riuscirebbero a diventarne i leader. Con il rischio che a trentacinque potrebbero governare il Paese. Che incubo. Non scherziamo. Quelle non sono vere sinistre. La sinistra, quella vera, siamo noi. Noi senza più capelli. Noi con la barba lunga e gli occhiali da vista. Puah! Vogliono fare politica senza neanche avere il pacemaker. Roba da pazzi. Mica vorremmo diventare come loro? Quelli fanno sul serio. Vincono le elezioni. Ma vogliamo scherzare? Noi non ci assumiamo questo rischio.

GIUSEPPE FERONE