Editoriale: Après moi, le déluge

Ancora qualche giorno a Palazzo Chigi per Mario Monti, qualche mese al Quirinale per Giorgio Napolitano. Poi tutti e due si ritroveranno a Palazzo Madama, dove il primo è stato nominato senatore a vita nel novembre del 2011 dal secondo, che smessi i panni presidenziali avrà il laticlavio di diritto. Toccherà tuttavia ancora a Napolitano, una volta archiviate le elezioni, procedere con gli adempimenti istituzionali che permetteranno all’Italia di avere un governo e di rispondere alla necessità di agganciare la ripresa economica già in atto in paesi Ue come la Germania, dove il Pil è tornato a crescere.

Scadenze ed adempimenti tra cui rientra il conferimento dell’incarico al prossimo Presidente del Consiglio. Ci si aspetta dal Colle, in chiusura di mandato, ancora un invito forte al dialogo tra i partiti della prossima legislatura, alcuni dei quali del tutto nuovi alle aule parlamentari: sarà probabilmente questa l’eredità morale che Napolitano vorrà riaffermare e consegnare a chi governerà il Paese e ad un Parlamento ancora una volta eletto con il “Porcellum”.

Il prossimo Capo dello Stato dovrà pertanto ripartire da qui, da un problema, evidente, di scarsa rappresentatività dei deputati e dei senatori della nuova legislatura, avvertito già in quella attuale come nella precedente. La destra populista, invece, dovrà ripartire, dopo la verosimile rotta elettorale del Cavaliere, dalla propria rifondazione e da una profonda riflessione su come contrapporsi, nel prossimo Parlamento, al nuovo governo, che auspichiamo essere di centro-sinistra: opposizione intransigente all’insegna del “no sistematico e pregiudiziale”, oppure rinuncia all’estremismo in favore della collaborazione su alcune questioni, come le riforme, stando a quanto detto in passato dal dimezzato Alfano?

Questa variabile dipenderà anche dalle proporzioni della sconfitta della coalizione berlusconiana al Senato. Il panico incombe e stavolta i colonnelli del Pdl saranno attesi da un esercizio acrobatico senza rete, una volta avviato alla pensione il frontman di Arcore. Per la sconfitta alle politiche, infatti, il tribunale del popolo forzitaliota avrà già individuato il colpevole predestinato nel gruppo dirigente scadente e di contorno, reo di aver portato l’ex “Casa delle libertà” al disastro nel tentativo di mettere da parte Sua Emittenza. Col rischio che ogni manovra per tenere in piedi la baracca naufraghi sul nascere, confermando quanto l’autoparagone tra Berlusconi ed il Re Sole sia calzante: après lui, le déluge.

ANTONIO MATASSO

Regione Lazio, elezioni sub iudice

Con l’ordinanza emessa dal Tar Lazio nei giorni scorsi si certifica una circostanza che non è sfuggita da tempo a molti operatori del settore, ossia che le elezioni regionali per il Lazio del 24-25 febbraio prossimi saranno sottoposte alla spada di Damocle di futuri – e probabili – ricorsi giurisdizionali sulla legittimità del procedimento elettorale, con conseguente rischio potenziale di annullamento della consultazione.

Ma procediamo con ordine. Come noto, il decreto del Presidente della Giunta regionale dimissionario ha fissato il numero complessivo del Consiglio regionale in 50 membri oltre il Presidente. Tale scelta ha trovato fondamento giuridico in una norma statale (contenuta nel decreto legge 174/2012 sui costi della politica regionale, poi convertito in legge) che individua la composizione massima delle Assemblee elettive regionali sulla base di parametri demografici. Per il Lazio il numero massimo di riferimento è, appunto, 50.

Tuttavia, questa norma, e il decreto del Presidente della Giunta regionale, si pongono in contrasto con lo Statuto del Lazio, nonché con la sua legge elettorale, che, entrambi, fissano in 70 la composizione del Consiglio.

Tale discrepanza ha dato origine ad un ricorso da parte di alcune forze politiche circa la legittimità di convocare elezioni per il rinnovo di soli 50 consiglieri (più il Presidente dell’esecutivo regionale) in luogo degli attuali 70, poiché si verrebbe configurare – a giudizio dei ricorrenti – una lesione della competenza regionale in materia statutaria e di organizzazione (prevista dall’art. 123 cost.), e quindi una illegittimità dell’intero procedimento elettorale.

Si noti che la questione sollevata non è assolutamente marginale non solo dal punto di vista giuridico, per le ragioni che tra poco diremo, ma anche politico, poiché le diverse formazioni che si presenteranno alla consultazione sono soggette al rispetto di una normativa controversa e che potrebbe essere annullata ad elezioni svolte, con conseguenze sull’articolazione del processo democratico e sulla volontà degli elettori facilmente intuibili.

Tenuto conto di tutto ciò, la pronuncia del Tar, nel rigettare l’istanza cautelare per sospendere l’efficacia del decreto regionale, non contribuisce a dipanare i dubbi sulla certezza delle prossime elezioni regionali. Infatti, nell’ordinanza il collegio precisa che la trattazione del merito della questione avverrà solamente il 7 marzo, ossia a risultato abbondantemente acquisito. Inoltre, contro questo provvedimento cautelare sarà presentato appello dinanzi al Consiglio di Stato, come già annunciato dai ricorrenti.

La precarietà del procedimento traspare altrettanto esplicitamente da un passaggio dell’ordinanza in cui il collegio ammette che non esistono, allo stato, soluzioni che possano scongiurare una ripetizione della tornata elettorale a seguito di un eventuale accoglimento del ricorso in sede di merito, e quindi dopo lo svolgimento delle elezioni.

Ne discende un quadro estremamente delicato circa il livello si stabilità della procedura elettorale, in un contesto politico regionale fibrillante ed in continua evoluzione, che non lascia escludere code giudiziarie idonee a minare la credibilità del risultato del voto espresso dai cittadini.

Questa vicenda può, in conclusione, essere letta nell’ambito di quella generale confusione che caratterizza, da alcuni mesi, l’intera materia elettorale ed istituzionale, sia a livello statale che regionale, tra riforme annunciate e mai completate, interventi legislativi poco rituali ed un sistema bisognoso di nuovi equilibri per affrontare le sfide della modernità.

VINCENZO IACOVISSI

I vantaggi comparati nel socialismo

Con l’acuirsi dell’attuale crisi, assistiamo all’emergere, nonché al radicarsi di movimenti politici estremisti, di cui forse il caso greco, rimane l’esempio più eclatante, con l’oramai affermato movimento di estrema destra “Alba Dorata”, partito dalle forti connotazioni neo-fasciste e neo naziste. Tuttavia anche in Italia l’ondata neofascista ha ripreso gran vigore, attraverso l’approvazione della Costituente Alba Dorata Italia, lo scorso Dicembre, di cui Alessandro Gardossi ne è il rappresentante.

Hanno destato la mia attenzione le fondamenta su cui si basa il movimento, idee particolarmente basate sulla distribuzione di alimenti ai poveri, sull’apprensione verso gli imprenditori strozzati da Equitalia, nonché la diffusione delle loro idee nelle fabbriche.

La partecipazione, la solidarietà ed il lavoro, sono temi che rispecchiano tutt’altra fonte politica, che, soprattutto in questa fase di discesa economica sono usati da alcuni speculatori politici per trarre un vantaggio individuale e non collettivo.

Vorrei ricollegare quest’ultimo passaggio alla teoria dei vantaggi comparati (1817) di David Ricardo, famoso economista, considerato uno dei massimi esponenti del pensiero classico. L’assunto su cui si basa tale teoria, è che un paese tenderà a specializzarsi nella produzione del bene su cui ha un maggior vantaggio comparato, cioè la cui produzione ha un costo opportunità (il costo che un individuo sostiene rinunciando ad una cosa per intraprenderne un’altra, ad esempio maggior lavoro comporta minor tempo libero, quest’ultimo è il costo opportunità), in termini di altri beni, minore che negli altri paesi.

Vi chiederete, qual è il legame tra il socialismo e Ricardo? Mi è ritornato in mente questo autore, poiché se noi guardassimo il PSI come un paese e se tuttavia focalizzassimo (avessimo focalizzato) tutte le nostre energie (la specializzazione che intende Ricardo) su ciò di cui il partito è stato promotore da decenni (la nostra reputazione decennale, nonché i nostri originali valori rappresentano il nostro costo-opportunità) come la libertà di uguaglianza, di giustizia, di responsabilità, di solidarietà, avremmo adesso (ed avremmo avuto) un vantaggio rispetto ad altri partiti che attualmente copiano i nostre ideali e pertanto avremmo (forse) declinato verso altre attività questi pseudo movimenti politici, attuando in tal modo una più evidente selezione naturale, collocandoci nella giusta posizione che ci spettava e che ancora ci spetta!

MARCO FRANCO

Sinistra e cittadinanza, una provocazione sui valori

A dispetto della baraonda suscitata intorno ai possibili punti di dibattito per l’Italia che verrà, una questione sembra essersi già delineata quale punto caldo della prossima legislatura. Ci si riferisce al mutamento della legge sulla cittadinanza, attualmente imperniato sul cosiddetto principio dello ius sanguinis, per cui l’acquisto automatico di tale diritto viene ricollegato all’appartenenza ad un’ascendenza italiana. Si tratta di un criterio bocciato senza mezzi termini come incivile dallo schieramento di centro-sinistra, che ne ha fatto l’oggetto di una campagna abolizionista, al fine di sostituirlo con il diverso principio dello ius soli, grazie al quale l’accesso alla cittadinanza verrebbe garantito in virtù della mera nascita sul territorio italiano.

Sebbene in prima battuta possa apparire confortante una simile omogeneità in una realtà politica che negli ultimi vent’anni non ha certamente brillato per uniformità di pensiero, v’è tuttavia da chiedersi se sia possibile adottare uno schema mentale così rigido, in un campo pregno di ripercussioni potenzialmente esplosive, senza aver prima aperto un dibattito interno al popolo di sinistra. Detto in altri termini, la riforma della legge attualmente vigente è davvero un imperativo categorico? A parere di chi scrive, la risposta è no, sulla base di una serie di considerazioni che verranno illustrate qui di seguito. In una trattazione della materia dei diritti di cittadinanza a favore degli immigrati non si può non partire dalla questione del presunto razzismo che si celerebbe dietro la posizione di chiunque si dimostri avverso al dogma della necessaria riforma.

Per i sostenitori di tale mantra, sarebbe discriminatorio non concedere ai figli degli immigrati un automatico accesso a tale posizione chiave del nostro ordinamento, poiché ciò equivarrebbe ad emarginarli in eterno dallo spirito nazionale, tramutandoli inesorabilmente in corpi estranei. Una simile affermazione potrà anche apparire suggestiva agli occhi di molti, soddisfacendo il loro intimo bisogno di non esser additati come mostri razzisti, fornendo nel contempo un facile strumento per zittire eventuali opposizioni, e non a caso è stata fatta pendere sinora come una spada di Damocle sul capo di chiunque abbia osato contestare nel dibattito interno alla sinistra la crociata contro la legge sulla cittadinanza. Peccato che, ad una rapida analisi, essa dimostri una totale carenza di contenuti. Giova ricordare che, nella realtà concreta, lanciare accuse necessita di una base probatoria, tanto più quando essa implichi il rischio di uno stigma sociale quale quello del razzismo. L’accusa di un’esclusione dei figli d’immigrati dall’accesso alla cittadinanza sarebbe fondato qualora essa si traducesse in un’ assoluta ed automatica preclusione all’acquisizione in questione. Ma il testo normativo in vigore smentisce completamente quest’assunto. La l. 91/1992 si limita difatti a ricollegare tale acquisto alla nascita e residenza in Italia sino alla maggiore età, nonché alla manifestazione della dichiarazione di volerla acquisire entro un anno dal compimento del diciottesimo anno. Questo meccanismo potrà anche non essere gradito, ma non può essere certamente bollato come razzista, visto che non si traduce in alcuno sbarramento. Essa esprime semmai un principio di grande civiltà, cui la sinistra sembra essere ormai divenuta completamente sorda, ma che nondimeno continua ad ergersi a garanzia della sopravvivenza del nostro ordinamento: il collegamento del possesso della cittadinanza all’accettazione dei valori democratici scaturiti dall’esperienza storica europea. Trattasi di una questione focale, a parere di chi scrive destinata a costituire in Occidente il principale campo di battaglia sul piano dei valori costituzionali, e sui cui si dovrebbe aprire un sereno tavolo di dibattito, senza preclusioni di sorta. Perché tacciare d’inciviltà chiunque intenda ricollegare la cittadinanza a qualcosa di più che un semplice possesso di status non soltanto è una condotta intellettualmente sciocca e moralmente indegna, ma tradisce anche una profonda ignoranza del significato profondo che sottende al diritto in questione. Cittadinanza non equivale infatti ad un semplice cumulo di diritti e di doveri, non è un semplice attestato impresso in scartoffie amministrative, ma esprime l’appartenenza ad una comunità dotata di propri valori cui si deve aderire per poter esserne parte. Ed è proprio in questo che l’inconsistenza del discorso giocato a sinistra rivela la propria fallacia. Affermare che l’invocazione di radici cristiano-ebraiche nella cultura europea altro non è se non uno specchietto per le allodole utilizzato dalla destra per legittimare un’ipotetica riconfessionalizzazione della nostra società conterrebbe una grande verità, purché fosse accompagnato da una susseguente difesa dei valori posti a base della laicità statale, che costituisce la maggiore conquista ideologica del mondo occidentale.

Ma i partiti dell’area opposta alla destra sembrano purtroppo aver completamente smarrito questo discorso, attaccandosi ad un’aprioristica difesa di un’idea di neutralità che nasce viziata proprio perché rifiuta di difendere il contenuto essenziale del nostro patto costitutivo. Essere titolari del diritto di cittadinanza implica difatti per chiunque il dovere di abbandonare tradizioni e costumanze che risultino incompatibili con i valori fondanti del nostro ordinamento, principi dietro i quali si nascondono secoli di dolorose lotte e di martiri. E’ il prezzo che tutti vengono chiamati a compiere nel momento stesso in cui accettano di essere cittadini europei. È vero che nella realtà dei fatti moltissimi italiani ed europei sono contrari agli ideali della parità di genere o della libertà sessuale, tuttavia è innegabile che il controllo sociale esercitato nei loro confronti è tanto più stringente quanto più esacerbato è il loro tentativo di sovvertire l’ordine esistente, percepito come nemico di elementi essenziali del vivere comune. Sennonché nella mentalità dominante a sinistra questo meccanismo di difesa viene meno qualora le violazioni dei valori laici vengano ad esser commesse da immigrati, in nome di un malsano senso di colpa verso il passato coloniale che induce a perdonare loro quanto non è tollerato dagli oriundi, quando proprio nei confronti dei primi bisognerebbe esercitare una maggiore spinta all’adeguamento. Sebbene si voglia chiudere volontariamente chiudere gli occhi, per evitare d’esser marchiati di razzismo, la triste realtà è che le comunità d’immigrati tendono a preservare il proprio codice etico proprio attraverso lo sfruttamento di questa concezione di tolleranza, che si rivela malsana nel suo non richiedere reciprocità. Perchè sarà giusto ritenere il concetto di cittadinanza slegato dall’idea di un popolo inteso quale gruppo etnico, i cui tragici risvolti hanno causato la scomparsa di milioni di persone nell’ultima guerra mondiale, ma è altrettanto sacrosanto esigere dai nuovi arrivati l’assimilazione dei valori ritenuti legittimi sul nostro territorio. E ai tanti profeti di sventura, che amano salmodiare la tragedia della discriminazione, sarebbe utile sottolineare come il pericolo di un suicidio degli ideali laici, insiti in queste campagne, non sia tanto remoto. Senza tralasciare le tragiche vicende di Sanaa ed Hina, psicologicamente e fisicamente maltrattate per anni all’interno delle proprie comunità ed infine massacrate perché colpevoli di voler essere occidentali, è interessante notare che in Belgio gli esponenti delle comunità musulmane, detentori di un diritto di cittadinanza acquisito proprio in virtù di questa unilaterale apertura, hanno fatto eleggere nei dintorni di Bruxelles esponenti del Partito Islam, che si propone d’instaurare nel Paese la sharia islamica.

Innanzi a simili propositi, sarebbe opportuno chiedersi se l’Eurabia invocata da Oriana Fallaci, l’eretica più vituperata dalla sinistra italiana, sia poi così lontana dall’essere frutto di vaneggiamenti. Lungi dall’essere una semplice espressione democratica, queste condotte segnano infatti un tradimento dei valori di rispetto cui pure le comunità musulmane, oggi le principali in espansione demografica, dovrebbero essere portavoce, dimostrando quanto assurda sia l’idea di offrire il diritto più prezioso a persone che in perfetta malafede ne fanno il pilastro di un sovvertimento dell’ordinamento esistente. In questa prospettiva, la previsione vigente dimostra allora la propria piena valenza: ricollegare l’acquisto della nostra cittadinanza ad un periodo formativo che coincide con l’educazione scolastica consentirà difatti ai figli degli immigrati di assimilare i valori del nostro ordinamento non soltanto formalmente, ma anche psicologicamente, permettendo loro d’interiorizzare condotte mentali spesso assenti nel contesto d’origine, ma che definiscono l’identità italiana ed europea. Appare allora opportuno procedere con cautela in affermazioni arbitrarie sull’obbligo di modificare la legislazione sull’immigrazione, senza prima essersi degnati d’aprire un dibattito interno all’opinione pubblica, che dia voce anche a quanti, pur riconoscendosi nei programmi di quest’area, vogliano però difendere i principi di laicità. Permettere alla destra estrema di monopolizzare questa tematica, apparendo quale unica paladina della laicità, non soltanto è un’offesa alla memoria di quanti per uno Stato realmente neutrale hanno pagato con la propria vita, ma rischia oltretutto d’indurre l’opinione pubblica, come accaduto nei Paesi Bassi sta ora accadendo in Belgio, a seguirli nell’abbandono di atteggiamenti d’apertura verso gl’immigrati per reazione a quello che viene giustamente percepito come un attacco alla propria identità. Se proprio si volesse condurre una battaglia di civiltà, sarebbe semmai opportuno per Bersani o Napolitano spendere parole decise a favore dei diritti di categorie di cittadini, cui andrebbe per ragion di cose data la priorità, quali gli omosessuali o coloro che vegetano in condizioni comatose senza aver potuto scegliere come impostare la propria fine. L’ipocrita timidezza adottata riguardo il primo punto e l’assoluto silenzio adottato sul secondo costituiscono allarmanti segnali di uno smarrimento esistenziale dell’area di sinistra, che non lasciano presagire nulla di buono per il futuro.

GIUSEPPE GIGLIOTTI