Pd e profumo di sinistra: un’analisi dei limiti del centrosinistra

Conclusasi la tormentata fase della battaglia delle primarie, si apre una parentesi di riflessioni e di bilanci, quanto mai opportuni, considerati i toni elevati utilizzati nel confronto Renzi-Bersani. Ebbene, se proprio si voglia fare conteggi di vincitori e vinti, sembra proprio che tra i secondi debba annoverarsi quella che pure avrebbe dovuto essere la regina del ballo inscenato nella coreografia delle primarie, la tanto incensata idea di un programma di Sinistra. Sembra eretico affermare che proprio un’idea progressista sia risultata vittima di un confronto tra forze che a lei si richiamano. Eppure, analizzando le dichiarazioni dei contendenti nelle battute finali della lotta, sembra emergere ancora una volta il dramma storico dell’area di centro-sinistra, quel vizietto di farsi bella delle penne ideologiche progressiste per poi bruciarle sull’altare d’incoerenti alleanze partitiche. Che Matteo Renzi ed il suo staff di pseudo rottamatori siano propensi ad un uso quanto mai improprio delle idee di sinistra non può stupire, considerando la loro basilare estraneità al nucleo ideologico che a questo schieramento si richiama. Stupisce invece la banalizzazione fattane da un personaggio quale Bersani, la cui apertura, in passate legislature, ad istanze realmente vivificanti della nostra asfittica società avrebbe dovuto lasciar presagire una condotta immune da vili compromessi con Sel, come attestato dalle sconcertanti dichiarazioni su Israele rese nel confronto finale con Renzi, traditrici della sofferta opera di risanamento tra sinistra e mondo ebraico in corso nel Pd in questi ultimi anni. D’altronde, per un paradosso tipico del contesto politico italiano, proprio Nichi Vendola, in genere propenso a sfiancare il suo uditorio con infinite narrazioni, sembra questa volta aver individuato il punto dolente del dibattito, con il suo richiamare i candidati alla necessità di sentire profumo di sinistra nei programmi da approntare in vista delle prossime elezioni. Spogliate dei sottintesi politici vendoliani, questa dichiarazione mette difatti a nudo la tragica confusione ideologica in cui l’area opposta al centro- destra continua a dibattersi da vent’anni a questa parte, incapace com’è di chiarire la propria natura e, conseguentemente, di formulare una consequenziale piattaforma programmatica. Sebbene messa a tacere, per evidenti ragioni di opportunità politica, l’indeterminatezza ideologica del Pd è una tara originaria che ne ha ostacolato sin dalla genesi le capacità di azione e reazione politica, obbligandolo ad un’opera di appiattimento nei confronti degli avversari risultata quanto mai dannosa in termini di governance e di consenso. Infatti, sebbene diversi commentatori abbiano preferito sorvolare sulla questione, concentrandosi sulle indubbie capacità mediatiche espresse da Silvio Berlusconi nel corso della propria carriera politica, è indubbio che un ruolo determinante nei trionfi conosciuti dal centro destra italiano nella cosiddetta Seconda Repubblica sia stato giocato dal rifiuto del polo avversario di proporre un’ alternativa che fosse percepibile come di sinistra. Le ragioni di quest’ostinazione, apparentemente suicida, non sono tuttavia irrazionali come pure potrebbero apparire a prima battuta, specie se si considerino i disastrosi risultati cui hanno condotto, bensì trovano una razionale giustificazione nel naufragio ideologico conosciuto dalla partitocrazia italiana dopo Tangentopoli. L’universo politico della Prima Repubblica, senza ricercare soluzioni dualistiche di sorta, ancorava infatti la propria stabilità all’esistenza di tre grandi partiti capaci d’esprimere con sufficiente chiarezza determinate piattaforme ideologiche. In questo panorama, il voto moderato di matrice cattolica affluiva nella DC, quello legato alle correnti comuniste nel PCI, mentre le istanze socialdemocratiche venivano ad essere rappresentate nel PSI. I vantaggi di una simile ripartizione della rappresentazione politica erano evidenti. Sebbene il mutare delle esigenze sociali ed economiche avessero indotto nel corso del tempo queste formazioni a rivedere, spesso in modo radicale, le proprie linee d’azione, l’elettore rimaneva sicuro di ricollegare il proprio voto ad una formazione capace di esprimere una determinata visione del reale. Tale certezza è andata completamente distrutta a seguito del tracollo di Tangentopoli, segnando uno spartiacque nel legame tra elettori e partiti ed ingenerando un meticciato politico che ha finito per allontanare sempre più i primi dai secondi. Tuttavia, mentre il centro-destra è riuscito a ricompattarsi in tempi straordinariamente brevi intorno al progetto della rivoluzione liberale lanciato da Berlusconi, l’area di sinistra s’è incamminata su un sentiero diametralmente opposto, finendo per smarrire completamente la propria identità. Infinite sono state le ragioni invocate per spiegare un simile tracollo, ma quella più convincente sembra risiedere nell’assurdo connubio tra le forze progressiste ed i cosiddetti cattocomunisti. Si è trattato di un matrimonio celebrato per ragioni di opportunità politica, ma destinato ad essere infecondo sul nascere, per la radicale incompatibilità di vedute tra tradizioni sostanzialmente estranee tra loro. Lo testimonia la feroce opposizione dimostrata dalle aree moderate del Pd su questioni, quali quelle dei diritti civili o della bioetica, che pure si presumono essere patrimonio dell’area di sinistra. Trattasi d’incoerenze che, oltre che riprovevoli sul piano politico, sono risultate poco credibili anche sul fronte elettorale, che non a caso ha spesso premiato l’agenda berlusconiana, istintivamente avvertita come non contraddittoria. La stessa vicenda delle primarie ha finito per dimostrare il paradosso del Pd, costretto ad assistere all’affermazione di un personaggio, quale Matteo Renzi, che ha fatto del disprezzo verso la sinistra uno dei suoi cavalli di battaglia. Viene però da chiedersi se simili commistioni possano trovare buona accoglienza in un corpo elettorale segnato dalla crisi economica e dalla frustrazione sociale. E sotto tale profilo il messaggio vendoliano risalta in tutta la sua concretezza. Impegnati nelle loro beghe elettorali, gli apparati sembrano aver dimenticato che, nei momenti d’incertezza, l’elettore esige chiarezza di contenuti e di visioni. Ne consegue che l’ennesimo inciucio con le forze centriste, cui Bersani sembra voler ammiccare, non agevolerà l’affermazione di una linea progressista, pure auspicata da moltissimi italiani. Nè migliori rassicurazioni sembra offrire l’alternativa di un’alleanza con una sinistra, quale quella vendoliana, incapace di superare la sua storica dipendenza da una visione marxista del reale, ormai anacronistica. In definitiva, l’arena del centrosinistra appare oggi un foglio sostanzialmente bianco, su cui nuove storie possono esser scritte. Ed è allora compito delle forze socialdemocratiche esprimere alternative a narrazioni già viste, proponendo una visione progressista che ripudi l’accomodamento con il conservatorismo cattolico, senza cedere al fanatismo ideologico delle aree no global e comuniste. E’ una sfida difficoltosa, che quasi certamente impiegherà anni a produrre i suoi frutti, ma che non per questo dev’esser tralasciata, non foss’altro che per dimostrare all’Italia che esiste un aroma di sinistra diverso dalla gradazione comunista.

GIUSEPPE GIGLIOTTI